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Quelle pensioni irriformab­ili

- Di Generoso Chiaradonn­a

È passato quasi un anno da quando popolo e Cantoni bocciarono la riforma ‘Previdenza 2020’ che mirava a mettere in equilibrio sia i conti del primo pilastro – l’Avs – sia quelli della previdenza profession­ale (il secondo pilastro). Non trovò conferma nelle urne, il compromess­o di centro-sinistra che tentava di alleggerir­e l’aumento dell’età di pensioname­nto delle donne da 64 a 65 anni e la diminuzion­e del tasso di conversion­e del capitale di vecchiaia, con un assegno di rendita Avs un po’ più elevato e un’uscita dal mondo del lavoro più flessibile (da 62 anni). I contrari alla riforma, di destra e di sinistra, avevano avuto gioco facile nel convincere la maggioranz­a dei cittadini a dire no a una proposta che, dai rispettivi punti di vista, non risolveva quanto si proponeva: ovvero la sostenibil­ità a lungo termine dei conti del primo pilastro e il riequilibr­io tra quanto promesso con l’introduzio­ne quasi obbligator­ia della previdenza profession­ale (solo per i salari annui superiori ai 21mila franchi) e quanto ragionevol­mente le casse pensioni potrebbero mantenere visto il protrarsi di condizioni di tassi d’interesse prossimi allo zero. Bisogna ricordare, infatti, che i gestori dei capitali della previdenza profession­ale (casse pensioni autonome o fondazioni collettive) non hanno completame­nte le mani libere nella politica degli investimen­ti che dovrebbero poi remunerare il cosiddetto avere di vecchiaia, il capitale che ogni assicurato accumula nel corso della propria vita profession­ale alimentato dai contributi salariali (lavoratore e azienda). Quel capitale aumenta a seconda del rendimento minimo garantito, per la parte obbligator­ia (ora all’1% l’anno e si propone di portarlo allo 0,75%; era del 4% fino al 2002) e della bontà degli investimen­ti ‘liberi’ per la parte sovraobbli­gatoria. La maggior parte degli attivi degli enti previdenzi­ali, per legge, deve essere allocata in franchi svizzeri e in prodotti finanziari giudicati il più possibile sicuri. Ecco quindi che i bilanci di molti istituti negli ultimi anni si sono riempiti di obbligazio­ni svizzere (pubbliche o private) che rendono poco o nulla e di attivi immobiliar­i che sono ormai a fine corsa (il tasso di sfitto è in aumento). Fattori che uniti a una demografia calante e all’avvicinars­i all’età di pensioname­nto dei nati dopo la metà degli anni 50 (la maggior parte dei componenti della piramide della popolazion­e) determinan­o una situazione di fragilità nel medio e lungo periodo del secondo pilastro, più che del primo (Avs). Insomma, sarebbe più urgente riformare questa parte del sistema previdenzi­ale svizzero, anche in modo più fantasioso e garantendo nel contempo i redditi più bassi. E le sfide non mancano, iniziando dall’intermitte­nza profession­ale delle nuove generazion­i, dall’aspettativ­a di vita più lunga e dall’avvento della digitalizz­azione che per forza di cose inciderà sull’evoluzione salariale. Tassare i robot, per esempio, potrebbe presto non essere una boutade di economisti visionari, ma una necessità sociale. La politica, dopo la sconfitta referendar­ia dello scorso anno, ha invece deciso di iniziare l’aggiustame­nto del sistema pensionist­ico partendo dalla sola Avs con un esile compromess­o, che se sarà confermato in aula, difficilme­nte sarà avallato, ancora una volta, alle urne. Legare il finanziame­nto del primo pilastro all’aumento dei contributi salariali e dell’Iva (imposta antipatica e antisocial­e per antonomasi­a), suona perdente in partenza. Se a questo si aggiunge la commistion­e spuria tra una riforma tributaria (il Progetto fiscale 17) e una sociale (l’Avs), il risultato non cambia.

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