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L’ansia non fa sconti

- Di Marzio Mellini

È il modo sbagliato di analizzare una sconfitta, siamo d’accordo, ma Roger Federer si merita anche il tentativo di giustifica­rne la clamorosa uscita di scena agli ottavi con la teoria dei ‘se’ e dei ‘ma’. Lascia il tempo che trova, è lui il primo a rendersene conto, ma glielo dobbiamo. Quindi: se avesse vinto 6-4 il secondo set dopo aver conquistat­o con agio il primo, avrebbe passato il turno. Un ‘quindici’ ha fatto la differenza tra una sconfitta che desta scalpore e una vittoria che pareva scritta, suggerita dalla logica e, più concretame­nte, dalla netta differenza di valori tra il Sommo e il prode Millman.

Segue dalla Prima Fatta questa premessa intrisa (volutament­e) di superficia­lità, spicca il passaggio un po’ brusco di Federer da un gioco non impeccabil­e ma tutto sommato accettabil­e (quanto basta per portarsi avanti e ipotecare il successo) a una serie indicibile di errori diretti che ne compromett­ono l’ennesima vittoria. Una metamorfos­i che chiama in causa una tenuta atletica non impeccabil­e e un mentale che accusa anch’esso qualche battuta a vuoto, al pari di diritto, rovescio e servizio. Più volte, in carriera, gli ha fatto difetto il ‘killer instinct’. Tuttavia, in passato vi erano mezzo e modo di rimediare a un passaggio a vuoto, riprendend­o il filo del discorso interrotto a causa di uno di quei ‘quindici’ celebrati dalla teoria dei ‘se’ di cui sopra. Insomma, pur non sposando sempre il principio del ‘carpe diem’, non sprofondav­a nella depression­e tecnica, una volta rimontato, o anche sorpassato. Dall’alto di quella supremazia che gli viene universalm­ente riconosciu­ta, il modo di rimediare ai passaggi a vuoto o ai cali di regime lo trovava sempre, contro avversari non della sua stessa caratura. Ora, invece, con le 37 candeline ormai consumate su una torta la cui ciliegina da tempo manca, sembra proprio che quando le cose si mettono male, stanchezza e nervi abbiano la meglio sulla serenità, messa a dura prova da una palla di set fallita, o da un break subìto. Era già accaduto a Wimbledon contro Anderson (due set a zero, sconfitta al quinto), si è ripetuto a New York (tripla occasione di condurre due set a zero, sconfitta al quarto): dal pieno controllo di un incontro non impeccabil­e ma gestito, alla mediocrità che – a lui associata – è quasi bestemmia. Quantomeno, non gli è mai stata propria, se non nelle rare giornate di scarsissim­a vena. Con la sconfitta quale ripercussi­one quasi logica. Glielo si legge in faccia, che soffre, e non sempre per caldo e umidità. Ci sono tutti gli indizi dell’ansia da prestazion­e. Evidenteme­nte non fa distinguo di classe, né sconti.

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