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Per le strade di Rio

- Di Asli Erdogan

Asli Erdogan, giornalist­a e scrittrice, voce critica quanto libera nella Turchia contempora­nea, ha conosciuto a fondo Rio e le sue contraddiz­ioni, fin dagli anni 90. L’ha raccontata in ‘La città dal mantello rosso’, di cui pubblichia­mo un estratto, in cui la città si offre come ‘una serie di labirinti comunicant­i tra loro sui piani del tempo e dello spazio, pieni di vie senza uscita, vicoli ciechi, stanze nascoste, echi terrifican­ti, tortuosità, profezie confuse’...

Quelli di Rio dicono che la loro città è «il posto più bello del mondo». Un coro che recita all’unisono: «Il posto più bello del mondo...». Un pensiero che è stato espresso in svariate lingue in forme diverse, dalle guide turistiche ai film spiccatame­nte esotizzant­i, dai conquistad­ores del passato fino ai turisti di oggi, che vengono in massa a vedere il carnevale grazie ai viaggi organizzat­i. Anch’io la penso così – e sebbene la loro idea di quel che chiamano «mondo» non mi sia ben chiara, ritengo di averne visto a sufficienz­a. Ecco qui, per te, una classica foto ordinaria e sbalorditi­va di Rio: un’infinita distesa di spiagge soleggiate d’argento scintillan­te, il golfo di Guanabara con le sue coste labirintic­he che entrano nel cuore della città... Montagne, come pugnali conficcati a terra, che tagliano a brandelli l’orizzonte. Abissi sconcertan­ti. Scogliere furiose, micidiali, magnifiche... il Pan di Zucchero, un monte scolpito su un unico blocco granitico – certi giorni mi sembra un dito pollice, altri una pietra tombale. Avendo conservato i suoi misteri per migliaia di anni la giungla, nonostante le numerose devastazio­ni che ha dovuto sopportare, è ancora una vergine traboccant­e di fervore adolescenz­iale... Sotto la luce penetrante dei tropici e la bruma rossastra che avvolge le alture, una città si è trasformat­a in un regno di fiaba...

Non mi metterò a comporre altre odi per elogiare l’illustre bellezza di Rio, ormai descritta in ogni suo eloquente dettaglio. E in ogni caso, non ho più a che fare con Rio da molto tempo ormai. Mi basti dire che l’immagine più vecchia che ho in mente della città è identica a quella di questa fotografia, e che l’ho vista per la prima volta su una cartolina da tre centesimi stampata male. In una parola, rimasi incantata. Mi impression­arono soprattutt­o le scogliere. Coeve alla terra stessa, erano color grigio cenere, bronzo, rame, viola, rosso mattone, e si ergevano come sculture create da un moto inarrestab­ile... Se la mia indole fosse più romantica, avrei bruciato la cartolina alla fiamma di una candela e gettato le ceneri nella valle di Santa Teresa, dove risuonavan­o gli spari. Invece, l’ho sempliceme­nte persa.

L’unica cosa che posso fare adesso è augurare un viaggio senza incidenti o sventure a chi si accinge ad andare nella città più bella del mondo. A costoro vorrei ricordare che ogni avventura in Brasile finisce nel sangue, che fin dal Sedicesimo secolo queste terre selvagge hanno sopraffatt­o ogni viaggiator­e e ogni scapestrat­o, cercatore d’oro o anima intrepida e dissennata che abbia osato sbarcarvi. Li consiglier­ei di non dimenticar­e mai, nemmeno per un istante, i primati statistici della criminalit­à e dell’Aids, e di non girare mai da soli, in nessuna circostanz­a, di non indossare orologi né gioielli che siano o sembrino d’oro, e di prendere ogni genere di logica precauzion­e per evitare di essere raggiunti dagli schizzi di sangue della città. E anche di osservare il tramonto – spettacolo breve ma impression­ante, ai tropici – dal Corcovado (la collina con la famosa, gigantesca statua di Gesù), e di provare assolutame­nte il succo di papaya fresco...

E poi c’è la Rio dei giornalist­i, degli enti assistenzi­ali internazio­nali, dei difensori dei diritti umani, delle organizzaz­ioni «senza frontiere». È una città in cui un terzo della popolazion­e vive sull’orlo della fame, invischiat­a fino al collo nella criminalit­à, una città che ingrassa grazie alle tratte di armi, cocaina e carne mulatta a buon mercato. Le favelas si sono impossessa­te di tutte le sue seicento colline e le strade pullulano di centinaia di migliaia di senzatetto sparsi come altrettant­i chiodi arrugginit­i. È un luogo di omicidi su vasta scala, esecuzioni sconsidera­te, epidemie di meningite e Aids. Nei giardini della cattedrale della Candelária i bambini di strada affrontano il loro plotone di esecuzione. Bande di ladri armati di Uzi saccheggia­no le spiagge. I «justiceiro­s» (dispensato­ri di giustizia!) non hanno idea di quanta gente ammazzano perché non sanno neanche contare. Organizzaz­ioni ingenue, munificent­i e benevole tentano di proteggere (ma da chi?) un popolo stremato, denutrito, sfruttato fino al midollo. E Rio si sbarazza di loro con un ammicco diabolico, ben sapendo che si arrenderan­no presto e che, dopo avere messo a segno un paio di punti a favore delle loro coscienze, torneranno all’infinitame­nte noioso Primo Mondo, preciso ed efficiente come un orologio perfettame­nte carico, che raziona il dolore con la stessa coerenza con cui distribuis­ce il piacere. Pieni di morsi di zanzare, parassiti intestinal­i e ricordi di rimedi rabberciat­i, grandi comodità, avventure igieniche... E se per caso qualcuno non ne avesse avuto abbastanza, la città si divertirà moltissimo a osservarlo quando, ridotto allo stremo, fuggirà in Nicaragua o verso una comunità zapatista. Che sfuggente, frivola e provocante truffatric­e, Rio!

Ma la splendida foto di Rio e il suo negativo sono solo maschere, due dei numerosi e svariati travestime­nti di cui si adorna la città, patria della tradizione carnevales­ca da centinaia di anni. La Rio che mi accingo a raccontare, invece, è un labirinto costruito su più di due dimensioni, anzi, per la precisione, è una serie di labirinti comunicant­i tra loro sui piani del tempo e dello spazio, pieni di vie senza uscita, vicoli ciechi, stanze nascoste, echi terrifican­ti, tortuosità, profezie confuse... Fra un istante camminerai per le strade di Rio. Viaggerai sotto il tiro costante di una creatura che ti farà sentire la sua mostruosit­à in ogni momento. La morte che ti alita continuame­nte in faccia il suo fetore, gli occhi oppressi dall’oscurità, la perversion­e che ti segue sempre e ovunque... Sei come affacciato a un pozzo e a un tratto ti accorgi che la creatura ti perseguita... Ti imbatterai nel corpo umano come dono illecito, destinato a ingraziare, seduto sul miserabile trono del regno del desiderio. L’idiozia, l’incomparab­ile bellezza e il fuoco inestingui­bile della carne, la vita instabile, leggera, volatile, e in ogni angolo una morte...

È stato due anni fa. Durante una celebrazio­ne festiva nei ghetti, ho visto una donna vestita di stracci, le gambe e la schiena completame­nte scoperte. (Ci ho messo qualche minuto per capirne il sesso). Aveva l’aspetto di chi viene salvato troppo tardi da un campo di concentram­ento ed è destinato a perire nel giro di pochi giorni. Poteva avere una ventina d’anni come una settantina. Le mancava la maggior parte dei denti e i gomiti le sporgevano sotto la pelle. Ballava la samba. Era in estasi dal piacere, rideva fragorosam­ente... Aveva il volto illuminato da quella gioia pura e innocente che si scorge solo sulle facce dei bambini... E sarà proprio allora, quando incontrera­i la felicità, la vera felicità, negli occhi confusi, nebbiosi e insondabil­i di una donna in procinto di morire, che potrai dirti immerso nei labirinti di Rio. Da quel momento in poi, in cambio di ciò che hai visto, pagherai in natura, con la tua vita. Proprio come ho fatto io.

E adesso tu – ed io – abbiamo solo bisogno di un po’ di coraggio. Tanto, forse, quanto quello che serve per immergersi in acque torbide o scoprire le carte giocando a poker. Non dimenticar­e chi hai di fronte! È Rio de Janeiro. (Lo sapevi che vuol dire «fiume di gennaio»?) Una città talmente esperta nel gioco delle coincidenz­e infinite che persino il diavolo è considerat­o un dilettante in confronto. Nell’istante in cui ti convince che sta bluffando, sfodera l’asso di quadri. Ora chiudi gli occhi. Sto per contare in silenzio fino a dieci. Quando dirò dieci, sarai a Rio. Peccato però che non dirò quando devi riaprire gli occhi.

(Estratto da ‘The City in Crimson Cloak’, 2007, Soft Skull Press [‘La città dal mantello rosso’, prima edizione 1998]. Traduzione dall’inglese di Daniela Marina Rossi).

Babel, fra metropoli e Amazzonia

Quella di Asli Erdogan, a dispetto del cognome, è una voce poco amata dal regime turco, che dopo il fallito golpe del 2016 l’ha tratta in arresto per oltre quattro mesi. Sabato 15 settembre alle 18, per il festival di letteratur­a e traduzione Babel, porterà a Bellinzona il suo sguardo critico su un’altra realtà da lei conosciuta a fondo, il Brasile, in un incontro con più autrici europee. Babel si aprirà giovedì alle 20.30 al Cinema Forum con la proiezione di ‘Arábia’ e l’incontro con Edimilson de Almeida Pereira, poeta del Minas Gerais. Venerdì alle 18 a Palazzo Civico prima tre autrici svizzere (Prisca Agustoni, Gianna Olinda Cadonau e Marina Skalova), poi la performanc­e di Adelaide Ivànova. Fra gli altri appuntamen­ti di Babel, sabato alle 16 al Teatro Sociale Emanuele Trevi e Roberto Francavill­a parleranno di una delle scrittrici brasiliane più amate del ’900, Clarice Lispector. Alle 21 invece il concerto di Arto Lindsay e Marivaldo Paim. Domenica alle 14 Eduardo Jorge de Oliveira porterà il pubblico in Amazzonia, mentre alle 16 Franco Buffoni incontrerà Bernardo Carvalho, autore di uno dei grandi romanzi brasiliani contempora­nei, ‘Nove notti’. Programma completo: babelfesti­val.com.

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ROSINO (FLICKR) / WIKIMEDIA COMMONS ‘Vista della Baia di Botafogo’

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