Un caffè sovranista
Superati i tornelli della metro, stazione di Cordusio, l’inevitabile dubbio del viaggiatore saltuario: verso quale uscita devo dirigermi? Guardo le frecce che indicano vie e piazze. Una scritta indica la Pinacoteca ambrosiana ma, onestamente, a chi interessa il ‘Ritratto di musico’ di Leonardo? La meta più ambita è Starbucks, la catena statunitense diventata sinonimo di caffè in tutto il mondo. Tranne che in Italia, dove finora l’azienda che ha donato al mondo il frappuccino si era tenuta lontano. Ben sapendo che, in Italia, l’espresso è un rito più sentito dell’eucarestia; e infatti l’annuncio dell’apertura di una ‘Reserve™ Roastery’ in centro a Milano ha suscitato polemiche solitamente riservate alla costruzioni di moschee. Facendo risparmiare un bel po’ di soldi in pubblicità a Starbucks: che bisogno c’è di annunci e manifesti con la rissa mediatica tra difensori dell’italico bere e spalancatori di frontiere gastronomiche, tra sovranisti della tazzina e cosmopoliti del Coffee? Così, visto il largo anticipo con cui sono arrivato a Milano per la conferenza stampa dei Premi Balzan, decido di prendere la metro per Cordusio e scoprire l’esperienza Starbucks. E scrivo “esperienza” perché in Svizzera il gigante di Seattle è presente da anni; una macchinetta del caffè con il familiare logo verde l’ho superata proprio qualche ora prima alla stazione di Lugano. Guadagno la superficie e ovviamente sbaglio uscita: sono dall’altra parte della piazza rispetto allo storico edificio delle Poste italiane che ospita Starbucks. Due ragazzine, dietro di me, hanno commesso lo stesso errore. “Ma sai dov’è? La Cla mi ha detto di scendere qui” mugugna la prima. “Eccolo lì, eccolo lì!” urla eccitata la seconda, con entusiasmo che pensavo riservato solo alle boy band. Davanti all’edificio, dei gazebo con alcuni avventori, un po’ in imbarazzo sotto lo sguardo incuriosito dei passanti – tra cui io e le due ragazzine –, protetti da vari buttafuori in abito scuro. E poi, a destra, una lunga, sorridente fila che gira l’angolo e si sperde lungo via Cordusio. Un buttafuori stima, anche lui sorridendo, in un paio d’ore l’attesa. Le ragazzine si mettono pazientemente in coda: dovranno raccontare qualcosa, alla Cla; io riattraverso la strada e cerco un baretto dove sedermi tranquillo per un espresso. Ma non consideriamola una vittoria dei sovranisti del caffè: a gestire il bar sono dei cinesi; semplicemente, un’altra globalizzazione.