Scuola che verrà: colleghi non facciamoci del male
L’Ocst-docenti e il Movimento per la scuola non danno indicazioni di voto, il che equivale di fatto a dare una mano a chi vuole seppellire la Riforma. Le motivazioni? I docenti non sarebbero stati coinvolti a sufficienza nell’elaborazione del progetto. Occorre ricordare che la storia degli ultimi 40 anni di scuola ticinese dimostra che da parte dei docenti non sono mai arrivate proposte di riforme: né di contenuti, né di metodologie. I docenti si mostrano da anni solamente reattivi alle iniziative prese dall’alto, specie se toccano le condizioni di lavoro. Questo dato di fatto è facilmente spiegabile: se mettiamo 10 docenti in un’aula dando loro il compito di elaborare una riforma, l’unico punto su cui 8 o 9 di loro troverebbero un accordo sarebbe la diminuzione degli allievi per classe. Su tutto il resto litigherebbero all’infinito senza arrivare a nulla. Il corpo docente è diviso su tutto. Ovvio allora, onorevole sig. Morisoli, che nei sondaggi e nelle prese di posizione la maggioranza dei docenti ha criticato il progetto di riforma. È scorretto che Lei citi questi dati nascondendo che moltissimi docenti vi si oppongono per motivi diametralmente opposti ai suoi. Lei era persino contrario alla diminuzione degli allievi per classe, non faccia finta ora di avere i docenti dalla sua parte! Lei crede che una Sua proposta o di chiunque altro, faccia l’unanimità dei docenti? È probabile che fra i docenti ce ne siano anche di quelli che vorrebbero, come lei, i livelli in tutte le materie a partire dalla I media, ovverosia tornare alla preistorica situazione di Maggiori /Ginnasio, ma son certo che sono pochi. Altri si oppongono al progetto perché vorrebbero abolire le note e con esse la famigerata soglia del 4,65 alla fine delle medie per poter accedere alle Scuole superiori; altri (come ha ricordato un leader del Movimento per la scuola alla radio) perché temono di dover lavorare di più, altri ancora per l’angoscia di doversi mettere in discussione convinti che quello che svolgono da 10 o 20 anni a questa parte sia una sorta di rito ortodosso che “guai a chi me lo tocca e me lo cambia”; altri, come ho sentito da un esperto su Rete 2, perché si è intervenuti sul “come” e non sui contenuti; altri perché sono infastiditi di essere obbligati a lavorare nella stessa aula con un altro collega; altri perché non vengono modificate le griglie orarie; altri perché ritengono che l’ambito della creatività – sempre più richiesta anche in ambito lavorativo – permane relegato in un angusto angolino; non pochi si perdono in elucubrazioni per interpretare il concetto di “competenza” e criticarlo ognuno con le lenti della propria ideologia, naufragando in disquisizioni simili a quelle sul sesso degli angeli. La realtà è che tutto questo bailamme di voci critiche si traduce in un drammatico disfattismo, che non fa che ringalluzzire chi vuole riesumare un’organizzazione scolastica che già 40 anni fa era superata. Pur con le modifiche e i compromessi a cui ha dovuto piegarsi a causa delle molte pressioni politiche “La Scuola che verrà” resta un progetto che muove passi nella giusta direzione. Un progetto a questo punto assai moderato che non rivoluziona la scuola, ma formalizza e tenta di generalizzare alcune modalità di lavoro che la pedagogia perora da ormai 100 anni, che in molte aule (specie delle elementari) sono già largamente diffuse e che permetterebbero – tra l’altro – anche ai colleghi disfattisti di lavorare finalmente per alcune ore con pochi allievi, con benefici che mi chiedo come un docente possa ne- gare. Invito quindi in primis i docenti a sostenere con forza questa riforma. Non permettiamo, come vogliono i promotori del referendum, che la scuola sprofondi nel medioevo pedagogico.