Poche vittime bussano in Diocesi
Abusi e molestie sessuali in Chiesa: dal 2010, 300 nuovi casi in Svizzera. La Diocesi di Lugano mette a disposizione due esperti, ma da gennaio 2017 le segnalazioni sono state 4 e un solo caso ha fatto tutto l’iter. Il vescovo, mons. Lazzeri, ammette che forse va trovata un’altra via.
Gli abusi sessuali nella Chiesa cattolica sono un tema caldo anche in Svizzera dove l’anno scorso ci sono state 65 nuove segnalazioni, soprattutto per fatti avvenuti oltre 30 anni fa e dunque prescritti. Dal 2010 si contano 300 casi, riguardano vittime che all’epoca degli episodi erano bambini o ragazzi fino a 16 anni. Si spazia da espressioni ambigue, a gesti o ‘avances’ indesiderate. In 53 casi le vittime hanno parlato di atti sessuali, in 55 di coazione sessuale. È il bilancio stilato dalla Conferenza dei vescovi svizzeri (Cvs) sulle segnalazioni delle vittime alle varie diocesi. A quella di Lugano, che mette a disposizione due professionisti per l’ascolto (vedi a lato), hanno bussato 4 vittime. Un solo caso – che risale ad una cinquantina di anni fa – ha fatto tutto l’iter, fino ad un riconoscimento economico. L’autore è un prete non incardinato nella Diocesi luganese, che oggi è in Italia. Che cosa raccontano queste cifre? Perché in Ticino poche vittime si fanno avanti? «Le segnalazioni si contano sulle dita di una mano: una sola vittima ha fatto tutto l’iter e dopo decenni le sue ferite erano ancora aperte; c’è chi ha chiamato ma non si è presentato al colloquio; c’è chi dopo il colloquio non ha voluto proseguire. Siamo stupiti, pensavamo che più vittime facessero questo passo, ma è un cammino doloroso e per nulla scontato», dice Dante Balbo, psicologo e portavoce della Commissione diocesana di esperti a sostegno delle vittime di abusi sessuali, istituta a gennaio 2017 da mons. Valerio Lazzeri. Col vescovo di Lugano facciamo un bilancio.
Quale messaggio date alle vittime?
La Chiesa chiede loro di farsi avanti. Come segno di apertura mettiamo a disposizione due professionisti indipendenti. È uno spazio di ascolto, dove chi ha subito abusi può esprimere la propria sofferenza.
Che cosa chiedono le prime vittime?
I percorsi sono diversi: c’è chi chiede un sostegno per arrivare ad una denuncia, c’è chi non la farà, perché il reato è prescritto, ma ha bisogno di parlarne.
Chi è stato ‘tradito e ferito’ da un rappresentante della Chiesa vorrà confidare quei fatti a professionisti scelti dalla stessa istituzione?
Si tratta di due professionisti indipendenti dalla Chiesa. Non possiamo avere la pretesa di creare un sistema capace di scoprire l’intero campo degli abusi, ma dare un segno tangibile della nostra disponibilità all’ascolto, così che ciascuna vittima non si senta sola, ma venga accolta e accompagnata.
Viste le poche segnalazioni, pensa che la rotta scelta sia da aggiustare?
Forse non è sufficiente e dobbiamo trovare altri modi, ma penso sia importante che all’interno della Chiesa evolva una cultura dell’ascolto e della disponibilità a fare emergere le situazioni di difficoltà, così da poterle affrontare.
Parliamo ora dei preti che sentono pulsioni ‘malsane’: con chi possono parlarne?
Per i preti in ministero che dovessero avere difficoltà a gestire pensieri o pulsioni c’è un servizio di assistenza psicologica alla Diocesi di Milano, dove possono rivolgersi direttamente. I cammini si possono fare e diversi preti, anche giovani, li stanno facendo, non specificatamente sulla pedofilia, ma per maturare anche in questo ambito. Inoltre da tempo per i seminaristi abbiamo percorsi psicologici tenuti da un esperto che fa corsi e incontri personali sullo sviluppo della personalità, sull’integrazione della sessualità, dell’affettività, sulla capacità di relazionarsi agli altri. Li si incoraggia a guardarsi dentro senza spaventarsi e a raccontarsi. Per fare ciò serve un clima di serenità, ed è difficile trovarlo se a prevalere è l’ossessione sulla sessualità. Infine, abbiamo introdotto giornate specifiche sia per seminaristi, sia in ogni vicariato, tenute da Myriam Caranzano, direttrice dell’Aspi - Fondazione per la protezione dell’infanzia.
Dunque il prete oggi non è solo, anche nel gestire eventuali debolezze?
La solitudine è un dato del nostro tempo, tante persone si sentono separate anche se sono in mezzo a tanta gente. Anche i preti vivono queste dinamiche. Soprattutto tra i giovani avverto un desiderio di fraternità, di crescita comune, che è positivo. C’è la voglia di reagire, non ci si autocommisera come isolati. In altri periodi, quando il ruolo era più sacrale, forse la solitudine poteva pesare di più. Oggi la difficoltà maggiore è quella di trovare delle gratificazioni, che sono anche necessarie nella vita di una persona.
Che cosa si aspetta ora?
Che la preoccupazione della prevenzione si traduca in uno sguardo complessivo sulla qualità della formazione umana, spirituale e pastorale dei futuri presbiteri. E anche in un’attenzione più globale alla vita buona dei presbiteri e degli operatori pastorali in funzione. Non basta illuminare la parte malata e fissarsi solo su quella. Abbiamo bisogno di sviluppare un’attenzione globale che favorisca le dinamiche positive. Un organismo lotta contro le patologie non solo facendo la chemioterapia, ma alimentando le motivazioni profonde delle proprie scelte, aiutando le persone a vivere in ambienti dove la ragione per cui si è scelto il celibato possa condurre ad una vita umana piena. Ora abbiamo davvero bisogno che l’organismo si alimenti in modo da sviluppare gli anticorpi per combattere gli aspetti patologici e le derive.