La diabolica pop art
L’invasione artistica della cultura popolare americana al centro della mostra allo Spazio -1 L’esposizione, curata da Tobia Bezzola, della Collezione Olgiati esplora la pop art europea, le nuove esperienze emerse verso la fine degli anni Cinquanta, una re
Un po’ il caso, un po’ il segno della stretta collaborazione che lega il Museo d’arte della Svizzera italiana alla Collezione Olgiati, la prima mostra curata da Tobia Bezzola in qualità di direttore del Masi è allo Spazio -1, come ieri in conferenza stampa ha fatto prontamente notare Danna Olgiati. Anche se non è del tutto esatto perché Bezzola si sente più un «metacuratore, perché i curatori c’erano prima e sono i collezionisti». Perché, ha proseguito, un conto è partire da zero, un altro avere a disposizione una collezione dalla quale lasciarsi ispirare e suggestionare e che può riservare delle vere e proprie sorprese, con opere di artisti oggi dimenticati. E qui, a dirla tutta, di collezioni ve ne sono due: alle opere dei coniugi Olgiati si sono aggiunte quelle di un anonimo collezionista svizzero. In ogni caso, ecco qui ‘How Evil Is Pop Art?’, la mostra temporanea allo Spazio -1 che – accompagnata dalla tradizionale riorganizzazione della Collezione Olgiati in sintonia con i temi dell’esposizione – sarà inaugurata domani alle 18 e resterà aperta fino al prossimo 6 gennaio. La diabolica pop art, quindi. Per il titolo, Bezzola ha voluto riprendere la domanda che si era posta la giornalista e scrittrice Tullia Zevi nel 1964 nella sua recensione alla Biennale di Venezia di quell’anno. Ma il diavolo, ha spiegato Bezzola in conferenza stampa, più che la pop art, era la cultura popolare americana, questi prodotti colorati che, negli anni Cinquanta, travolsero la grigia Europa. Gomme da masticare, mais in scatola, bottiglie di Coca-Cola, le pinup, gli sgargianti cartelloni pubblicitari… questo e altro ancora lasciava un’indelebile impronta nella cultura e nella società europee. Rendendo necessaria una reazione. Perché, se c’è una differenza tra la pop art statunitense e quella europea, è proprio questo “esotismo” di chi guarda il nuovo che avanza avendo ben presente il vecchio. Per un americano è normale, ma per un europeo è uno shock. Insomma, non si tratta della rilettura della pop art americana ma di “una reazione di una giovane generazione di artisti europei a una mutata ecologia visiva”, per dirla sempre con Bezzola. Una nuova sensibilità estetica, più che una corrente artistica: se la pop art spinge al superamento del rigido dogma dell’astrattismo, lo fa dall’esterno, non dall’interno. Il che spiega anche la varietà di opere che troviamo esposte e che spaziano dalla ‘Bathing Beauty’ di Niki de Saint Phalle al ‘Cassius Clay’ di Konrad Lueg, passando per i manifesti strappati di Mimmo Rotella e lo specchio dell’‘Autoritratto con pianta’ di Michelangelo Pistoletto. Date queste premesse, si comprende perché Bezzola non abbia voluto impostare la mostra – che prende le prime tre sale dello Spazio -1 – con un ordine cronologico o geografico, mescolando tutto «perché all’epoca si mescolava tutto». E del resto, ha concluso Bezzola, è in questi anni che per la prima volta si forma una rete di contatti tra gli artisti a livello europeo. Il che comunque non cancella le differenti sensibilità nazionali. Ed è anzi interessante isolare, tra le quarantadue opere, tutte realizzate tra il 1959 e il 1966, quelle italiane. A cominciare dal già citato Mimmo Rotella che, alla fine degli anni Cinquanta, cambia radicalmente le regole del gioco sui cartelloni pubblicitari, voltando le spalle all’astrattismo e lasciando inalterato il contenuto, il messaggio e quindi l’intenzione originale dei manifesti. Abbiamo poi Franco Angeli, Gianfranco Baruchello, Tano Festa, Mario Schifano e Michelangelo Pistoletto, ognuno con il proprio modo di integrare le immagini fotografiche dei mass media e delle sgargianti pubblicità nella pittura. La mostra è, come di consueto, accompagnata da un catalogo in italiano e inglese, con testi di Tobia Bezzola e Vincenzo de Bellis, curatore presso il Walker Art Center di Minneapolis, e la riproduzione a colori di tutte le opere esposte.