Dieci anni dopo la ‘grande crisi’
Un decennio dopo il fallimento di Lehman Brothers, che paralizzò l’intero sistema finanziario mondiale, si vedono bene i destini diversi che i sistemi americani ed europei hanno imboccato
Il sistema americano registra banche rinate, più forti che mai come patrimonio e predominanti sul terreno globale del corporate e investment banking. Le banche europee invece, che pure avrebbero potuto (e dovuto) compiere lo stesso percorso di rinascita, sono state bloccate dai muri alzati dai Paesi dell’Eurozona in seguito alla crisi del debito sovrano e penalizzate dall’arrivo delle incomplete regole Ue sul settore — la cosiddetta Unione bancaria — perdendo a poco a poco la sfida con i colossi americani.
A un passo dal salvataggio
della Lehman Brothers
Eppure proprio la britannica Barclays era stata a un passo dal salvare Lehman Brothers nel settembre 2008. E sul mercato americano competevano colossi come Deutsche Bank e Société Générale. A dominare il mercato globale sono adesso di nuovo i giganti americani — basti pensare al peso di Jp Morgan, Bank of America, Morgan Stanley, Citigroup, Goldman Sachs — o i grandi gruppi statali cinesi (le prime quattro banche per patrimonio al mondo, Icbc, China Construction Bank, Bank of China, Agricultural Bank of China, sono sotto il controllo di Pechino).
Le fusioni
E le banche europee? Nel confronto internazionale sono piccole, frammentate e meno forti. Secondo Mediobanca, nel decennio 2008-2017 i principali istituti europei hanno cumulato utili per 410,9 miliardi di euro; le banche Usa hanno realizzato invece profitti per ben 625,6 miliardi di dollari.
Perché tali differenze negli utili?
Le principali differenze tra i due mondi bancari consistono nei costi più alti nella Ue rispetto agli Usa (67,5% contro 60,8% di cost/income ratio, il rapporto fra costi operativi e margine d’intermediazione), una maggiore svalutazione dei crediti e una minore redditività (5,7% contro il 7,3%). Ciò è vero anche in anni più recenti, post-crisi: nel triennio 2015-2017 la capitalizzazione delle banche Usa è cresciuta del 35,5% rispetto a una media europea del 13,1%. Da qui la spinta alle fusioni transfrontaliere tra colossi europei, a cominciare dalla mormorata Unicredit-Socgen fino alle combinazioni che coinvolgono Commerzbank o — da ultimo — la nascita di un gigante tedesco con la fusione tra Deutsche Bank e Commerz, attualmente entrambe in grande difficoltà. Il Ceo di Db, Christian Sewing si aspetta operazioni di questo tipo. Il suo omologo in Unicredit, Jean Pierre Mustier, pensa che solo banche più grandi sapranno assistere in modo più efficiente ed economico le piccole e medie imprese europee, mentre oggi — cita Mustier ad esempio — «la Germania non ha banche di questo tipo». Senza considerare che dipendere totalmente da multinazionali straniere per i finanziamenti alle grandi imprese o per i sistemi di pagamento implica anche rischi di natura geopolitica che non possono essere trascurati.
L’Europa frena le fusioni
A frenare le fusioni è paradossalmente proprio l’Europa. Le sue regole sulle banche non sono complete: manca per esempio un sistema comune di garanzia dei depositanti. Con lo scoppio della crisi i singoli Paesi hanno poi bloccato entro i propri confini la liquidità di un gruppo multinazionale — è stato il caso della Germania nei confronti di Unicredit — e questo ha esacerbato il rischio di essere esposti
violentemente alle crisi locali. Benché le regole di vigilanza siano più armonizzate, l’86% dei prestiti alle imprese e alle famiglie nell’eurozona ha ancora natura domestica. E le fusioni cross-border sono scese al minimo storico.
L’esempio del Texas negli anni 80
Il presidente della Bce, Mario Draghi, ricorre spesso all’esempio delle banche del Texas di metà anni Ottanta. Con il crollo dei prezzi del greggio fallirono quasi tutte, perché non era loro consentito operare negli altri Stati degli Usa. Avere dato la possibilità di bilanciare una crisi locale con i guadagni in un altro Stato, spiega Draghi, ha reso l’intero sistema Usa più resiliente ai singoli choc. L’esempio calza alla perfezione per l’Europa. Per questo motivo Draghi
spinge per una maggiore Unione bancaria e per riforme che si attendono «presto». Ma ci sono anche ragioni economiche a tenere le banche lontane dal fondersi, come la scarsa redditività e l’incertezza sulla valutazione degli attivi «illiquidi», quelli cosiddetti di Livello 3. Se il peso degli Npl (i crediti deteriorati) è un’eredità italiana dalla crisi, i «level 3 asset» sono soprattutto in pancia a Germania e Francia: anche se ridotti dal massimo di 182 a 133 miliardi di euro, sono comunque concentrati in pochi istituti, come appunto Db. Al pari dei rischi sugli Npl anche le eredità dei derivati, dice Draghi, «impediscono l’ulteriore consolidamento bancario nella Ue». Eppure le potenzialità per espandersi, specialmente per le banche italiane, ci sarebbero. E ci sarebbe anche necessità, sia per colossi come Unicredit e Intesa Sanpaolo ma anche con realtà medie come BancoBpm o Ubi.
Le banche italiane
Come evidenzia una recente analisi di Intesa Sanpaolo, i crediti deteriorati sono tornati al 6,2% medio, cioè ai livelli pre-crisi, e così il flusso dei nuovi incagli o delle nuove sofferenze. Ma soprattutto le banche italiane hanno fatto «i compiti in casa»: gli Npl sono scesi a 41 miliardi a livello netto, più che dimezzati in 18 mesi, con coperture sempre maggiori e più alte rispetto alla media europea (55,4% contro 40%). Inoltre hanno profitti più diversificati rispetto alle banche europee, con le commissioni che pesano poi degli interessi. Insomma in Italia le banche, anche se rimaste piccole, stanno decisamente meglio. Una fusione non dovrebbe vederle in difficoltà.