C’è fame di imprese innovative
Se, come spiegava Agatha Christie, un indizio è un indizio, due sono una coincidenza, ma tre fanno una prova, allora c’è ragione di vedere il bicchiere mezzo pieno: l’Europa delle startup si è risvegliata.
Più capitali, più operazioni e quotazioni, incubatori da Parigi a Berlino sempre più popolati e attrattivi: la sfida lanciata alla Silicon Valley, questa volta, non sembra una “bolla”.
Adyen l’anti PayPal
Sulle tracce del Rinascimento europeo dell’hi-tech, il primo degli indizi sta nel successo ottenuto dall’Ipo di una fintech olandese già rinominata l’anti PayPal. Si chiama Adyen e le sue azioni, dopo la quotazione, sono aumentate fino al 156% del valore iniziale, mentre la capitalizzazione ha superato – il 12 settembre – quella di Deutsche Bank: 21,7 miliardi di euro contro i 20 dell’istituto tedesco. Oggi è scesa a 19, ma il gioiello creato da un ex manager della finanza e già startupper, Pieter van der Does, è considerato dagli investitori come un cavallo su cui puntare. Fondata nel 2006 e profittevole dal 2011, Adyen si occupa di pagamenti digitali e funziona come un pos virtuale: in pratica «convenziona» clienti per l’accettazione di determinate carte di pagamento, gestendo le transazioni in tutte le fasi. I clienti, però, sono colossi come Uber, Netflix, Spotify, easyJet, Booking.com, eBay, quest’ultima “sfilata” alla rivale PayPal nei mesi scorsi (il passaggio sarà effettivo nel 2020). Tutti insieme, nel 2017 le hanno garantito ricavi per 727 milioni di euro, in aumento, nei primi sei mesi del 2018, del 67%. I finanziamenti raccolti finora toccano i 266 milioni di euro; tra i suoi investitori ha fondi come Iconiq Capital – già noto nella Silicon Valley, fondato dall’ex broker di Goldman Sachs Divesh Makan, sostenuto da Mark Zuckerberg – e Index Ventures, specializzato in fintech, insieme a Temasek Holdings, che ha base a Singapore.
Capitali coraggiosi: gli investitori ci credono davvero
Alla voce capitali si trova il secondo indizio: il numero, la varietà e la solidità di questa ondata di nuove startup europee – scrive il ‘Wall Street Journal’ – compongono un quadro in cui gli investitori, questa volta, credono davvero. Le somme messe in campo lievitano: 8,7 miliardi di dollari nella prima metà dell’anno, in crescita del 44% rispetto al 2013. Noccioline, rispetto ai 34 miliardi di dollari “scuciti” negli Stati Uniti nello stesso periodo, stando al Dow Jones VentureSource. Comunque un ribaltone, se confrontati con i 4 miliardi di euro totali che nel 2012 l’Europa scommetteva sulle startup. La svolta si incominciava a intuire già nel 2017, quando sono stati toccati i 19 miliardi, un record per i finanziamenti delle imprese tecnologiche del Vecchio continente. Un terzo indizio arriva dai rumors che riguardano Funding Circle, startup specializzata nei prestiti alle Pmi, 123 milioni di finanziamenti raccolti dal 2013 a oggi grazie a un parterre di investitori che comprende anche Index Ventures, BlackRock e Temasek. La fintech inglese starebbe programmando un’Ipo grazie alla quale toccherebbe il valore di 2,4 miliardi di dollari. Sarebbe pronta per la fine del 2018, in tempo per chiudere l’anno che ha consacrato Spotify (record europeo di finanziamenti con 2,6 miliardi dal 2006) nell’Olimpo delle società più innovative.
Cresce l’attenzione sugli hub tecnologici
Nel frattempo, cresce l’attenzione sugli hub tecnologici del Vecchio continente. A Parigi, dove ha sede BlaBlaCar, piattaforma di viaggi condivisi, c’è per esempio una realtà come Evaneos, attiva nel turismo digitale, che ha appena chiuso un round da 80 milioni di finanziamenti. Qui fiorisce il mega campus Station F., stimolato anche dal ”piano Macron”: 10 miliardi per l’innovazione.
Nel suo piccolo, lo imita la Finlandia, che ha un programma da 3 miliardi. Berlino va fiera dell’incubatore Rocket Internet, culla di imprese-modello come Zalando – che nonostante le ultime cadute in Borsa ha dichiarato di poter raggiungere l’obiettivo del raddoppio del giro d’affari entro il 2020 –, Delivery Hero ed HelloFresh.
Traguardi possibili
E l’Italia quanti “buoni” indizi può fornire? L’Osservatorio Startup Hi-tech del Politecnico di Milano pubblicherà i dati aggiornati a fine novembre. Il trend dovrebbe essere in linea con quello dell’Europa, anche se i numeri rimangono piccoli. L’anno scorso i finanziamenti
esteri in imprese innovative sono cresciuti del 163%, ma gli investimenti in equity di startup erano fermi a 261 milioni, nonostante il grande numero di imprese innovative che si registrano e il taglio medio di investimenti, che nel 70% dei casi ha superato i 500mila euro. Nel 2018 operazioni interessanti non sono mancate. Qualche esempio: da MoneyFarm, 83 milioni di finanziamenti raccolti (Crunchbase) e un round di investimento record chiuso in primavera con Allianz per 46 milioni, a Tannico, l’e-commerce del vino che ha ottenuto 2,5 milioni di euro. Cresce anche EryDel, startup per il trattamento delle malattie rare, con 25,6 milioni di euro ricevuti da Sofinnova
Partners. «Bene anche l’exit di Musement, la startup di viaggi (15 milioni di euro raccolti in cinque anni) comprata dai tedeschi di Tui – riflette Andrea Rangone, Ceo di Digital360 e fondatore degli Osservatori del Politecnico –. Anche qui ci sono prove di un clima positivo. Certo non ha senso gareggiare sui numeri: il gap esiste ed è dovuto al ritardo con cui l’Italia è partita e alla lentezza con cui recupera. Inghilterra e Francia, invece, hanno saputo sfruttare una cultura imprenditoriale vivace e motivata, che ha attratto i venture capital e ha trasformato questi Paesi in locomotive tecnologiche. Ma l’offerta italiana è di qualità e non vedo motivi per cui non si possa sviluppare».