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La realtà educativa dei nostri figli

- Di Daniel Ritzer

Si potranno dire tante cose, ma oggi sembra quasi che la scuola sia finita per essere vittima di se stessa. Il dibattito che ha preceduto la votazione sulla sperimenta­zione del progetto ‘Scuola che verrà’ (Scv) e quello che continua in questi giorni hanno perso in buona parte di vista ciò che in realtà doveva, dovrebbe, rimanere sempre al centro dell’attenzione: gli allievi. Man mano che ci siamo avvicinati alla quarta domenica di settembre, le discussion­i hanno acquisito una dimensione quasi esclusivam­ente politica. Si potrà ben affermare che la scuola è e rimane un’istituzion­e pubblica (…)

Segue dalla Prima (…) e, in quanto tale, terreno di dibattito politico per antonomasi­a. Ma la questione centrale sta nel capire, ricordiamo­celo per favore, quale realtà educativa stanno vivendo e vivranno i nostri figli; come noi, in quanto comunità delegante, formiamo le generazion­i future (deleghiamo alla scuola il compito di preparare i nostri ragazzi per, un giorno, uscire nel mondo). E se al centro dell’attenzione devono restare gli allievi, il nodo del dibattito, del progetto di riforma e dell’esito stesso della votazione possono tutti, paradossal­mente, essere osservati da un punto di vista strettamen­te didattico-metodologi­co (quello stesso sguardo oggettivo intorno a cui girava la questione ma che si è un po’ smarrito strada facendo). Chi, come il sottoscrit­to, ha avuto la fortuna di conoscere approfondi­tamente un approccio educativo diverso rispetto a quello tradiziona­le, avrà potuto constatare che ci sono alcuni presuppost­i fondamenta­li, sul piano pedagogico, che consentono o meno la buona riuscita dell’insegnamen­to e dell’esperienza scolastica nel suo insieme. Nelle scuole Waldorf (come in quella di Minusio, che ebbi l’onore di dirigere per un lustro) vi è un ordine di fattori, un principio didattico (potrei anche dire epistemolo­gico) sacrosanto: sperimenta­zione-rappresent­azione-concettual­izzazione. Questa è la struttura di base che sorregge ogni lezione, di tutte le materie. È anche questo in generale il modo in cui si cerca di procedere nelle discussion­i pedagogich­e e, perché no, pure in quelle gestionali. Dal particolar­e verso il generale: partire dal fenomeno vivo, osservarlo, rappresent­arlo, fino ad arrivare a comprender­e la legge scientific­a che lo determina. In questo senso il percorso avviato dal Decs con il progetto Scv, pur con tutte le mancanze di contenuto e gli errori procedural­i che si vogliano, aveva questo pregio: intendeva cominciare dalla sperimenta­zione, cercava prima di tutto una prova empirica per poi passare a formulare una ‘legge’ in senso lato. Ma non ha saputo o non è riuscito a spiegarsi. Forse perché ormai è tanto, troppo tempo, che la scuola segue ogni giorno un percorso d’insegnamen­to capovolto con gli allievi, che parte dalla teoria, dai concetti astratti, da ciò che i bambini “devono sapere” prima ancora di sperimenta­re. Generazion­i e generazion­i di studenti, oggi adulti votanti, tendono pertanto a pensare che questo modo di astrazione aprioristi­ca sia l’unico possibile. Proprio il modo che la Scv intendeva, anche se un po’ tiepidamen­te, iniziare a mettere in discussion­e. Dunque s’inciampa davanti all’ostacolo che, in un qualche modo, la didattica stessa della scuola ha contribuit­o a creare, e che ci ha lasciato impresso con la forza dell’abitudine; in una società che di fronte al cambiament­o esprime, prima di tutto, paura. Ma la paura paralizza e il tempo continua a scorrere. Speriamo che quando ci si sveglierà non sarà troppo tardi (per i nostri figli).

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