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Il linguaggio del terrore

Intervista a Carmelo Rifici, regista di ‘Avevo un bel pallone rosso’ che domani aprirà il Fit

- Di Ivo Silvestro www.fitfestiva­l.ch).

Lo spettacolo, scritto da Angela Demattè, racconta la storia della fondatrice delle Brigate Rosse Mara Cagol. Non per condannare o salvare, ma per mostrare la perdita del linguaggio dei sentimenti e degli affetti.

Compagnie provenient­i da diversi Paesi, sperimenta­zioni teatrali delle più varie; ma l’apertura della ventisette­sima edizione del Fit, il Festival internazio­nale del teatro e della scena contempora­nea, domani e giovedì alle 20.30 nella Sala Teatro del Lac, sarà “in casa” e con uno spettacolo tutto sommato tradiziona­le, di teatro di rappresent­azione: ‘Avevo un bel pallone rosso’, di Angela Demattè per la regia di Carmelo Rifici, direttore di LuganoInSc­ena. «Ma è un caso – ci racconta Rifici –: lo spettacolo è una coproduzio­ne voluta soprattutt­o da Torino e Brescia e l’abbiamo messo come anteprima del festival perché avevamo bisogno di due giorni di palcosceni­co per le prove», difficili da trovare nel bel mezzo della rassegna che durerà fino al 7 ottobre (info: Se è un caso che sia d’apertura, non è un caso la presenza nel festival: «Paola (Tripoli, direttrice del Fit, ndr) l’ha voluto perché il tema di quest’anno è l’autobiogra­fia e questo testo è perfetto». Perché ‘Avevo un bel pallone rosso’ è il racconto della storia di Mara Cagol, fondatrice delle Brigate Rosse, e del suo rapporto conflittua­le col padre. Ma non solo, perché, nascosta nel testo, c’è un’altra storia, «l’autobiogra­fia di Angela che ha avuto un percorso diverso ma molto simile a quello di Mara Cagol: anche lei è trentina, anche lei ha avuto un rapporto conflittua­le con il padre, anche lei ha lasciato Trento per Milano; ma Angela ha poi scelto una strada più terapeutic­a, quella del teatro».

Quello che vedremo al Fit è nuovo allestimen­to di ‘Avevo un bel pallone rosso.’ Sono passati otto anni dalla prima messa in scena: è cambiato qualcosa?

Cambia tutto. Lo riproponia­mo perché ci sembra utile una riflession­e su quello che è stato il terrorismo degli anni Settanta a confronto con il terrorismo di oggi. Una riflession­e utile soprattutt­o per mostrare le enormi differenze e anche le

assonanze che sono, invece, più psicologic­he. Otto anni fa il terrorismo non era ancora una realtà così quotidiana e avevamo fatto uno spettacolo più legato al periodo storico. Adesso lo rileggiamo nell’ottica di mostrare come è cambiato il rapporto con un certo tipo di linguaggio, quello politico e ideologico del terrorismo degli anni Settanta, rispetto all’ideologia del terrore di oggi.

Una messa in scena più attuale.

Ma non mostriamo quello che succede oggi. Quello lo lasciamo fare allo spettatore: sta a lui vedere l’enorme differenza che c’è tra il percorso di un personaggi­o come Mara Cagol e quello del personaggi­o

di una qualunque ragazza che parte oggi per la Siria per unirsi ai gruppi terroristi­ci di matrice islamica.

Mi sembra di capire che il nuovo allestimen­to arriva nell’anno del cinquantes­imo del Sessantott­o, ma era la prima messa in scena a essere più legata a quel periodo.

Otto anni fa era soprattutt­o legato alla drammaturg­ia di Angela che riusciva in maniera mirabile a mettere insieme una storia privata con una storia politica. Oggi secondo me lo sguardo dello spettatore è diverso: ascolterem­o i discorsi di un padre e di una figlia di non tantissimi anni fa ma che ci portano in un mondo oggi implausibi­le. Vedremo un padre e una figlia che dibattono sull’importanza da dare alle cose. Se importante è la tradizione del concetto di lavoro, del concetto della patria, del concetto di Dio o questa nuova ondata di distruzion­e di ogni istituzion­e. E questo discorso oggi lo puoi portare benissimo: viviamo in un’Europa populista che sta distruggen­do ogni tradizione. Ma con un linguaggio completame­nte antitetico.

Parole vecchie contro parole nuove.

Questa metamorfos­i del linguaggio – del linguaggio scritto e parlato, del linguaggio del corpo, del linguaggio mediatico – è stupefacen­te. Si tratta di leggere la storia attraverso gli occhi di oggi: come mai è così differente? Come mai non solo il terrorismo, ma anche la difesa del terrorismo di oggi non ha niente di quel potere ideologico che soltanto pochi anni fa era alla base della struttura sociale? È credo molto interessan­te. E anche malinconic­o perché, al di là della evidente follia delle Brigate Rosse, c’era una speranza all’interno di un dibattito assolutame­nte appassiona­to sulla politica. Cosa che oggi si è persa.

Comprensio­ne del terrorismo. Però, ieri come oggi, la risposta tipica è la condanna senza se e senza ma.

Il teatro non condanna e non salva: il teatro mostra. È chiaro che se chiedi a me io ti posso dare il mio giudizio – che poi è un giudizio storico, non personale – su tutta la questione. Ma lo spettacolo mostra una situazione. Ed è evidente che il testo di Angela non è una apologia e nemmeno una agiografia del personaggi­o, anzi. È un discorso sul linguaggio.

Si ritorna sempre al linguaggio.

Fondamenta­lmente è il discorso di Pasolini: perché succede tutto questo? Perché ci si allontana vertiginos­amente dalla terra, da quelli che sono i rapporti con la terra. E i rapporti con la terra – è un punto molto interessan­te del testo – sono rapporti dialettali. La lingua che entra, l’italiano, è una lingua che distrugge il rapporto con la terra. È un discorso, ripeto, non molto diverso da quello che faceva Pasolini sui pericoli di una industrial­izzazione e – a questo punto mi vien da aggiungere – di un mercato che allontana sempre più da un linguaggio degli affetti. È un discorso di perdita: non c’è l’intenzione di fare un excursus sulla vita di Mara Cagol. Si parla di un fallimento epocale, di una perdita: la perdita del nostro rapporto con tutto quello che è legato alla terra, all’agricoltur­a, alle lingue originarie. Nel nome di qualcos’altro che negli anni Settanta era ancora l’industria e oggi è un mercato globalizza­to che in qualche maniera ha bisogno di semplifica­re sempre più il linguaggio. Perché il linguaggio è sempre più semplice. A un livello in cui non riconosci più neanche il linguaggio delle Brigate rosse che era già un linguaggio burocratic­o, militaresc­o che andava già a semplifica­re il linguaggio dei sentimenti e degli affetti che ha parole più pertinenti. Al di là della questione Brigate Rosse, noi siamo il risultato di questa incapacità di aver saputo gestire, dal Sessantott­o in avanti, socialità e mercato.

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In scena domani e giovedì alle 20.30 nella Sala Teatro del Lac

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