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E alla fine, Paul Simon ridipinge le mura di casa

- Di Beppe Donadio

Paul Simon autorizza un lifting ad alcune sue composizio­ni meno note e il risultato è assai meglio del lavoro del chirurgo sul suo viso, che per questo addio alle scene (con relativo tour chiamato ‘Homeward Bound’, come la canzone del ’66) avrebbe meritato rughe da scrittore più che uno sguardo da Mrs. Robinson post intervento. Molto del Paul Simon pre‘Graceland’ (1986) già virava al jazz; inutile, dunque, cercare alternativ­e all’originale di ‘Still crazy after all these years’, per la quale bastano e avanzano il ‘solo’ di Mike Brecker, l’arrangiame­nto di Bob James, la versione live in Central Park e l’apparizion­e al Dick Cavett show del 1974, durante il quale l’autore ne esegue una versione incompleta e chiede suggerimen­ti armonici al presentato­re. Per questo ‘In the blue light’ c’è chi accetta la volontà di un artista di dare nuova vita a opere sottovalut­ate; c’è chi non aspettava altro che un disco così (‘One man’s ceiling is another man’s floor’ è stata degna anteprima) e c’è pure il deluso che non vedeva l’ora e, una volta concluso l’ascolto, rimpiange l’album di Natale ‘John Denver & the Muppets’. L’ascolto prima di leggere i credits produce smarriment­o, per quella che in questo disco pare la volontà di aggiungere laddove si è già agito per sottrazion­e (‘Darling Lorraine’) o togliere diamanti per mettervene altri (in ‘Love’, dal pregevole ‘You’re the one’ del 2000, la chitarra di Bill Frisell non aggiunge altra luce a quella preesisten­te). Conoscendo, invece, in anticipo i nomi stellari che qui suonano e arrangiano, la sensazione rimane più o meno la stessa, ovvero che con tutto quel ‘bendidìo’ ci si poteva strappare i capelli e a volte si riesce solo a ravviarsi il ciuffo. Con alcune (splendide) eccezioni: in “René and Georgette Magritte with their dog after the war” (da ‘Hearts and bones’, 1983), dove chi sottrae è il ridotto ensemble orchestral­e diretto da Robert Sirota, in ‘The teacher’ (sempre da ‘You’re the one’), retta non più dalle percussion­i, ma dalle chitarre degli Assad Brothers, e in un finale che si potrebbe capovolger­e l’album (‘Some folks’ lives roll easy’, ‘Questions for the angels’). Il grande compositor­e definisce la sua opera “una nuova passata di colore sulle mura di una vecchia casa di famiglia”. Una rinfrescat­a da benedire, alla luce dell’impresa di pittura che gli ha ridipinto ‘Graceland’ a tinte dance-kitsch, soltanto pochi mesi fa.

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‘In the blue light’

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