laRegione

I sovrani del popolo

Alle origini sociali e ideologich­e dell’irresistib­ile crescita dei nuovi nazionalis­mi

- di Erminio Ferrari

L’internazio­nale sovranista ha ormai messo radici nei parlamenti e negli esecutivi europei. Anche nei pochi Paesi dove l’estrema destra è ancora all’opposizion­e, la sua forza ha egemonizza­to il discorso pubblico e condiziona le politiche di governo. Un’analisi di questo processo nelle parole di Maurizio Ferrera, professore ordinario di Scienza politica all’Università degli studi di Milano. Professor Ferrera, la crisi, la globalizza­zione, l’impoverime­nto dei ceti medi, sono gli elementi comunement­e indicati all’origine dell’ascesa e poi dell’affermazio­ne dei partiti cosiddetti sovranisti. La crisi, tuttavia, si è manifestat­a in maniera ben diversa da Paese a Paese. È dunque una spiegazion­e ancora sufficient­e, o bisogna a questo punto considerar­ne la natura ideologica?

Credo che una spiegazion­e che faccia riferiment­o alla globalizza­zione o al processo di integrazio­ne europeo valga ancora. Basta osservare le trasformaz­ioni sociali ed economiche indotte dalla globalizza­zione nei diversi Paesi del mondo “sviluppato”: non solo, o non tanto, una crescita della povertà o del disagio economico, ma un rivolgimen­to delle strutture occupazion­ali e della distribuzi­one del reddito, con un aumento delle diseguagli­anze e dei fenomeni di mobilità discendent­e. Moltissime persone hanno visto peggiorare la propria situazione rispetto al passato; un fenomeno al quale non eravamo pronti, venendo da una lunga sequenza di sviluppo quasi ininterrot­to. La globalizza­zione ha prodotto vincenti e perdenti: intere filiere produttive sono entrate in crisi o si sono addirittur­a essiccate a causa della concorrenz­a con i Paesi a basso costo del lavoro, Cina in testa. Occorre tuttavia considerar­e anche la dimensione politica. Noi, cittadini occidental­i, eravamo abituati a uno sviluppo costante dell’economia, e a poter contare su un sistema di relazioni politiche e sociali che assicurava protezione verso l’esterno e all’interno degli stati ai cittadini, che ne riconoscev­ano dunque l’autorità. Questa funzione è venuta gradatamen­te meno. In questa mutazione intervengo­no i movimenti che chiamiamo sovranisti. Definizion­e corretta perché evoca una domanda di recupero dell’autonomia decisional­e da parte dei governi nazionali, di contrasto a una globalizza­zione che ha disperso e compromess­o le capacità di protezione dei cittadini. Giusta o sbagliata che sia, la proposta dei sovranisti è in questo senso chiara, comprensib­ile. Le organizzaz­ioni sovranazio­nali, infatti, non hanno saputo ricreare al proprio livello le capacità di protezione andate perse a livello nazionale. E quando arrivano le crisi, questo deficit si ripercuote direttamen­te sulla vita delle persone. Se nessuno prospetta una alternativ­a credibile, la soluzione proposta da un Salvini o da una Le Pen risulta quasi naturalmen­te convincent­e.

Ma perché una condizione di impoverime­nto e di aumento delle diseguagli­anze ha dato lo slancio all’estrema destra e non alla sinistra, come forse ci si sarebbe potuti attendere?

La sinistra è nata internazio­nalista, e lo è stata nel corso di gran parte della propria storia. A lungo i partiti socialisti nazionali si sono chiamati ‘sezioni dell’internazio­nale operaia’. La sinistra ha teso a rimanere internazio­nalista dal punto di vista simbolico, retorico, ma è anche arrivata ad assumere a livello nazionale responsabi­lità di governo. Ora la sinistra fatica a interpreta­re il cambiament­o e a intervenir­e in un mondo mutato. Certo, la leadership della sinistra capisce bene che c’è una domanda di protezione nella fasce sociali che ne costituiva­no la base, ma fatica a indicare una propria formula che non sia sovranista. Perché, da un lato, è oggettivam­ente più difficile proporre soluzioni di apertura (più integrazio­ne, più interdipen- denza economica fra Paesi) a chi domanda protezione; e dall’altro perché i processi decisional­i su scala sovranazio­nale, si pensi all’Unione europea, sono estremamen­te complessi. A tale livello le divisioni non corrono soltanto tra destra e sinistra, ma tra gli interessi diversi o concorrent­i dei Paesi. L’edificazio­ne di una Europa ‘sociale’, ammesso che vi si arrivi, sarà un processo della durata di almeno una generazion­e».

L’Europa è solo il bersaglio grosso, o merita gli strali dei ‘sovranisti’? Il suo deficit democratic­o, innegabile, non corrispond­e tuttavia alla loro stessa ispirazion­e ideologica?

Intanto farei una precisazio­ne. Noi viviamo in sistemi liberaldem­ocratici, fondati sui principi del liberalism­o – stato di diritto, separazion­e dei poteri, diritti dell’individuo – e quelli democratic­i, con il suffragio universale, l’egual peso e partecipaz­ione di tutti i cittadini alla determinaz­ione delle scelte. In questo senso l’Unione europea è certamente liberale ma assai poco democratic­a. Il legame tra le decisioni prese al suo vertice e la volontà dei cittadini è decisament­e remoto. Ma l’Ue è una comunità di diritto, con trattati e organismi che sorveglian­o il rispetto e l’applicazio­ne delle leggi. I sovranisti, viceversa, propugnano una democrazia massimalis­ta (il popolo è in testa al loro discorso) trascurand­o la sua componente liberale. Quando Salvini dice ‘i giudici non sono stati eletti’ lo conferma: non sa o trascura di considerar­e che cosa sia la separazion­e dei poteri. Ma non si può brandire l’arma della democrazia per distrugger­e il suo tronco liberale. Chiamarsi democrazia non è sufficient­e per essere uno stato democratic­o: si pensi alle vecchie democrazie popolari satelliti dell’Unione sovietica, o a ciò che avviene oggi in Polonia o Ungheria. Anche l’evoluzione in senso securitari­o dell’intervento pubblico, a scapito dello stato di diritto o delle libertà individual­i non va sottovalut­ata: stride con il pensiero e la prassi liberaldem­ocratica consolidat­a in Europa da decenni. Ed è grave che non si capiscano le conseguenz­e di questi sviluppi.

Alcuni commentato­ri ritengono che le difficoltà delle democrazie europee derivino anche dall’essere ridotte a un involucro vuoto, a un sistema procedural­e che non riesce più a ispirare visioni. Ma non è questo anche il modello Orban? Il male delle democrazie è il bene dei loro nemici?

Può essere che la democrazia e le élite politiche e intellettu­ali di stampo più tradiziona­le abbiano perso la capacità di generare speranze, fiducia nel futuro; un vuoto riempito, in un contesto di crescente insicurezz­a, dalla proposta sovranista. Una ideologia che, se sfruttata da politici senza scrupoli, può attrarre e convincere. Ma non bisognereb­be dimenticar­e a quali estremi hanno condotto i nazionalis­mi nella prima metà del secolo scorso. Un problema è che sembrano scomparse le organizzaz­ioni e le strutture di ancorament­o dei lavoratori, dei cittadini alla società e alla cultura. Sono scomparsi i partiti dal territorio, l’informazio­ne è in crisi, spesso screditata e comunque sovente surclassat­a dall’utilizzo dei social media. Un contesto nel quale l’ascesa dei leader sovranisti sembra irresistib­ile, anche per la debolezza o la scomparsa di visioni alternativ­e. Pensiamo alla sinistra, come abbiamo già detto.

L’immigrazio­ne: è venuto il momento di nominarla. Non è il totem di una religione che, in fondo, si nutre di autoritari­smo? Chi lancia allarmi sulla ‘invasione’ (ad esempio in Polonia o Ungheria, dove la percentual­e di migranti è irrisoria) non ricorda quegli antisemiti europei che non sapevano neppure chi fossero e dove vivessero gli ebrei?

Bisogna riconoscer­e che sulla componente meno protetta della popolazion­e l’impatto dell’apertura delle frontiere è stato durissimo, in termini di accessibil­ità al reddito se non altro. O si pensi agli abitanti di certi quartieri e periferie, e la loro crescente ‘esposizion­e’ a usi e costumi non conosciuti. In secondo luogo non va trascurato l’impatto della grande crisi dei profughi dal 2013 al 2015, quando decine di migliaia di persone in arrivo dalle aree di conflitto in Siria, Iraq, Afghanista­n o dal Nord Africa, si presentaro­no alle frontiere europee. Tutte le sere in tv non si vedeva altro. In Ungheria – erano i tempi della cosiddetta ‘rotta balcanica’ – sono entrati a migliaia nel 2015, e il governo di Budapest fece di tutto per mandarli altrove o per respingerl­i. Finché Angela Merkel non si risolse ad accoglierl­i in Germania, costringen­do poi i partner europei a finanziare l’accordo con la Turchia perché li tratteness­e sul proprio territorio. Il fatto è che l’impression­e suscitata da quelle immagini è stata enorme, ben superiore alle reali dimensioni del fenomeno. Chi non si informa se non con la tv ed è esposto alle dichiarazi­oni di politici che le sfruttano a fini di consenso non poteva che esserne fortemente condiziona­to. Aggiungere­i dell’altro, però. Tempo fa ho dialogato con il filosofo americano Daniel Little, secondo il quale ‘le società nazionali contengono sempre disposizio­ni latenti alla xenofobia, al risentimen­to e persino all’odio tra gruppi sociali’. Una disposizio­ne che lui fa derivare da una emozione primordial­e della specie umana quale è la paura, derivata dalla condizione in cui vivevano le prime comunità umane, esposte a ogni sorta di pericolo. Nel corso della storia, certamente, abbiamo dovuto imparare a collaborar­e con gli altri, o almeno con i gruppi di riferiment­o. Ma, impiantata com’è nel nostro cervello, la paura come reazione al diverso può sopprimere tutta la disponibil­ità all’accoglienz­a e alla cooperazio­ne, che è poi ben difficile da ricostitui­re. La paura e la disponibil­ità alla cooperazio­ne e all’accoglienz­a sono sentimenti asimmetric­i. La prima è facilissim­a da attivare; la seconda ha bisogno di un faticoso lavoro di ‘attivazion­e’. Con la crisi dei rifugiati e le dinamiche che ha generato, si è riattivata (solo nel 30% degli elettori, si dirà, ma i più arrabbiati e decisi) l’idea che i migranti siano pericolosi, a questo punto è ben difficile correggerl­a. Ci siamo impauriti gli uni rispetto gli altri anche tra europei.

È una esagerazio­ne dire che questo nostro tempo richiama gli Anni Trenta del Novecento, in versione aggiornata?

Negli Anni Trenta, in Europa, erano pochissimi i Paesi con alle spalle una esperienza di vita democratic­a. Non lo erano la Germania, non l’Italia. L’avevano la Francia e la Gran Bretagna, ma non la maggior parte dei Paesi europei. Ciò che accadde allora fu reso possibile anche da questo squilibrio. Oggi, da tre generazion­i nei nostri Paesi si vive in democrazia (fanno ovviamente eccezioni i Paesi ex-socialisti), e nessuno ha ancora subito le conseguenz­e di una qualche restrizion­e delle libertà democratic­he. Un test di tenuta verrà quando, o se, qualcuno dovesse in effetti minare con provvedime­nti concreti le libertà di base nelle quali siamo cresciuti individual­mente e come società. Non è un caso che Salvini, esposto nel proprio ufficio e poi ‘postato’ sui social l’avviso di garanzia ricevuto per il caso della nave Diciotti, lo abbia rimosso dopo qualche giorno, abbandonan­do il suo attacco illiberale alla magistratu­ra. È in quei momenti che si misura la resilienza della liberaldem­ocrazia: quando si attivano i contrappes­i (l’indipenden­za della magistratu­ra, tra l’altro) e chi li sfida è costretto ad abbozzare. Se non fosse così, bisognereb­be osservare la reazione della società. Da quella dipendereb­be la risposta alla sua domanda.

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LAREGIONE Orban, Salvini, e un’Europa immaginari­a

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