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Caso Rey: giustizia è fatta!

- Di Gabriele Chiesi, membro della CVsan durante il caso Rey

Segue da pagina 19 (…) come si usa dire. E questa pretesa suffragata – e non era difficile capirlo – dal cospicuo indennizzo versato alla paziente, in cambio della rinuncia a costituirs­i accusatric­e privata. La sentenza, confermand­o quanto già scritto nel decreto d’accusa, ha ribadito senza se e senza ma (quelli invocati dai due difensori) che il primo e indiscusso responsabi­le dell’identifica­zione del paziente è colui che impugna il bisturi, ossia l’operatore e che non può delegare questo essenziale compito a nessuno. Tutto il castello di obiezioni messo in piedi dalla difesa per sostenere che il dr. Rey fosse legittimat­o a credere che i membri dell’équipe sapevano chi era stesa sul letto operatorio e che quindi erano loro che dovevano metterlo in guardia – o addirittur­a fermarlo fisicament­e (sic!) – sono crollate come un castello di carte di fronte alla semplice constatazi­one che il dr. Rey è entrato in sala operatoria ed ha iniziato ad operare, senza fare nulla per accertare se quella era la paziente per la quale sarebbe stato cambiato il tipo di operazione (paziente del dr. P.), o se non fosse invece la sua paziente, alla quale doveva solo asportare un piccolo tumore retroalveo­lare. E per evitare il tremendo errore sarebbe bastata la cosa più semplice e ovvia, ossia chiedere: “Chi è la paziente?”. E questo a maggior ragione se fosse vero che quel giorno c’era una certa confusione nel blocco operatorio della clinica. Peggio ancora se si tien conto che qualcuno (sembra l’anestesist­a) avesse espresso dei dubbi sul tipo di incisione che il dr. Rey stava eseguendo. Ma qual è quel chirurgo che, di fronte a qualcuno dell’équipe che esprime dei dubbi, non si ferma e chiede: “Come mai lei mi dice questo?”. No, il dr. Rey si è limitato a rispondere che c’era stato un cambiament­o del tipo di operazione ed ha proseguito imperterri­to. Questo particolar­e mi ha da subito suscitato seri dubbi sul fatto che si sia trattato “solo” di una negligenza, seppure grave, come ha giustament­e specificat­o il giudice. Un errore così grave e così facilmente evitabile non è ammissibil­e da parte di un chirurgo che ha effettuato, nella sua carriera e per sua stessa ammissione, circa 4’500 operazioni con successo e pretendere di essere assolto, oltretutto dopo aver ammesso di aver falsificat­o il rapporto operatorio e quello d’uscita, non aver informato la paziente o i suoi famigliari per 4 mesi e neppure il medico cantonale: è una prova di arroganza che lascia interdetti! Dulcis in fundo: se non avesse impugnato il decreto d’accusa, causando così il processo pubblico, il fattaccio del luglio 2014 sarebbe già da tempo passato agli atti, mentre ora la condanna al carcere (seppure sospesa condiziona­lmente) è fardello ben più pesante della multa (pure sospesa) proposta dal Pp. Forse i suoi avvocati avrebbero dovuto consigliar­gli un poco di modestia e di credere che anche in Ticino non c’è nessuno che può ritenersi al di sopra della legge, anche se pensa che con i soldi si possa ottenere tutto. Questo penoso caso non deve però farci dimenticar­e che la maggior parte dei medici non sono fatti di questa pasta, come dimostrato da coloro che, consci di aver commesso uno sbaglio con importanti conseguenz­e, non hanno atteso di essere denunciati, ma si sono presentati spontaneam­ente al ministero pubblico, senza cercare scappatoie. “Primum non nocere”, si insegna nelle facoltà di medicina e se comunque ti capita, fai il dovere che ti impone il tuo giuramento.

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