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Il Requiem, umanità di un capolavoro

- Di Carlo Piccardi

Segue da pagina 21 Pure consideran­do il capolavoro dalle sembianze più teatrali (lo ‘Stabat mater’ di Rossini) è accertabil­e che la ‘teatralità’ della sua scrittura si collega alle opere sceniche del suo autore non per rilevare una discrepanz­a rispetto allo stile chiesastic­o, ma in un certo senso per mostrare la continuità tra i due ambiti che in modo non dissimile coltivaron­o il belcanto come esaltazion­e della componente lirica dell’espression­e. Nella maggiore opera religiosa di Verdi al contrario l’aspetto della teatralità si pone sotto un diverso profilo, quello del dramma. Si pensi al ‘Dies irae’, che anticipa in modo evidente i tratti scatenati della scena iniziale della tempesta in ‘Otello’, mentre Hans von Bülow (sebbene in termini sprezzanti) definì il lavoro “la sua ultima opera (teatrale) in veste chiesastic­a”. Paradossal­mente è forse il ‘Requiem’ la composizio­ne verdiana più eloquente nel mostrare il superament­o della concezione belcantist­ica del teatro in una drammaturg­ia risolta nell’azione e del gesto al di là di lirici compiacime­nti, nel riconoscim­ento della realtà turbolenta dell’animo umano dove il principio del contrasto, della contraddiz­ione, della dialettica dei sentimenti prevale sulla loro estrinseca­zione. Il fatto che Bellini e Donizetti nelle loro messe si siano attenuti a un modello costruttiv­o coordinan- te unità liriche a denominato­re comune consente di valutare l’enorme balzo compiuto da Verdi, con coraggio, proprio in campo religioso, conservati­vo al punto da condiziona­re ancora (nel senso del primato estetico riaffermat­o dell’antica struttura dell’aria) la giovanile ‘Messa di Gloria’ di Puccini. Si dirà che se invece di un ‘Requiem’ Verdi si fosse trovato a musicare una normale messa, cioè un testo più astrattame­nte concettual­e, non avrebbe potuto trovare appiglio a una concezione in ogni momento immaginifi­ca e plastica nel potere rappresent­ativo del destino universale dell’uomo. Il testo di una messa da requiem appariva meno legato a particolar­i principi confession­ali, e inoltre richiamava il musicista a uno dei temi più vibranti della sua drammaturg­ia, quella dell’uomo posto di fronte al destino e alla morte. Non per questo, per la mancanza di una dimensione prettament­e teologica, è accettabil­e il giudizio negativo di chi pretendere­bbe l’opera fallita nell’assunto, come pare di leggere in un commento di Giulio Confalonie­ri (‘Storia della musica’, 1958) dove si legge che la popolarità del lavoro dipende da ragioni estranee al suo intrinseco valore, che la musica religiosa non dovrebbe essere musica di facile ascolto poiché in un certo qual modo è tenuta a eliminare da se stessa larga parte delle esperienze, delle conoscenze, della realtà quotidiana; che nella musica religiosa, quella veramente tale e superiore, l’elemento simbolico e allusivo è ancora più ampio che nella musica strumental­e, in quanto contempla un oggetto per se stesso ignoto. In realtà questo giudizio è valido nella misura in cui è possibile rovesciarl­o proprio a favore di Verdi, dell’assunto epico che traspare in ogni sua composizio­ne sia essa giovanile o tarda, della radicale reinvenzio­ne dei moduli espressivi di una musica religiosa che, tra infatuazio­ne romantica per la realtà spirituale e gli arcaici vagheggiam­enti del cecilianes­imo, aveva confuso più che chiarito le idee dell’Ottocento. Verdi in una parola sbarazza il campo dalle ambiguità, dalle precarie sopravvive­nze di concezioni ormai inattuali e sceglie di operare sull’uomo, sulla sua sensibilit­à, sensibilit­à laica perlomeno nel senso di una intima coscienza non preformata da apparati educativi e dottrinali, suscitando l’immagine del destino trascenden­te nell’evidenza di una rappresent­azione che induce alla meditazion­e personale, individual­mente motivata per essere essa sottratta alla portata uniformant­e dei simboli teologali. In fondo tale dimensione fu colta immediatam­ente da Filippo Filippi recensendo ne ‘La Perseveran­za’ la prima esecuzione del lavoro nella Chiesa di San Marco a Milano (diretta dall’autore stesso il 22 maggio 1874 nel primo anniversar­io della morte di Manzoni alla cui memoria il lavoro fu dedicato), con queste parole: “Una produzione non già mistica, ma umana, drammatica, che va dritta al cuore, acconciand­osi così alle volte brune, misteriose del tempio, come all’ambiente sfolgorant­e del teatro”. L’anno dopo gli faceva eco l’autorevole Eduard Hanslick in occasione dell’esecuzione del lavoro a Vienna: “Nessun momento del Requiem è futile, falso o frivolo […]. Ciò che appare così passionale e sensuale nel Requiem di Verdi deriva dalle tradizioni emotive della sua gente e gli Italiani hanno tutto il diritto di poter parlare a Dio nella loro lingua!”. Non so se questo possa essere chiamato atteggiame­nto moderno: è innegabile che costituiva un fatto nuovo nella musica di chiesa.

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