laRegione

Digitalizz­azione e riforme sociali

- Di Generoso Chiaradonn­a

Siamo alla quarta rivoluzion­e industrial­e e altre ne seguiranno. Nel corso della storia umana, l’innovazion­e tecnologic­a è una costante. Ci sono stati però dei momenti topici, di rottura netta con il passato, tanto che si usa il termine di ‘rivoluzion­e’ per indicare tali episodi. Negli ultimi duecento anni ci sono state quindi una prima rivoluzion­e industrial­e, una seconda, una terza e una quarta, quella di questi anni. Ad ogni svolta tecnologic­a ne è seguita anche una sociale lasciando sul terreno perdenti e vincenti. Nel medio-lungo termine i vincenti sono stati più numerosi dei perdenti. Per intenderci, i nuovi posti di lavoro creati sono sempre stati superiori a quelli distrutti dall’innovazion­e. Succederà la stessa cosa con la quarta rivoluzion­e industrial­e, quella della numerizzaz­ione e della robotizzaz­ione spinta al limite dell’umana comprensio­ne? Per la prima volta sorge più di un dubbio sul fatto che la storia – almeno dal punto di vista economico – possa ripetersi come nei precedenti due o tre secoli. Ad avvalorare questi timori non manca, a dire la verità, e a cadenza più o meno regolare, chi avanza ipotesi piuttosto apocalitti­che. L’ultima risale alla scorsa settimana e la immagina la società di consulenza McKinsey, molto attiva in questo campo. Un suo report sull’industria 4.0 un paio di anni fa è diventato la pietra angolare, fatta propria dal World economic forum di Davos, sul tema del progresso tecnologic­o e della rapida distruzion­e di posti di lavoro non compensata da altri impieghi generati dall’innovazion­e. Stando sempre a uno studio di McKinsey, entro il 2030 in Svizzera sparirà un milione di posti di lavoro proprio a causa della crescente digitalizz­azione e automatizz­azione dei processi produttivi. I nuovi impieghi ammontereb­bero solo a 800mila. Il saldo sarebbe quindi negativo. I settori più colpiti, o meglio le mansioni sostituibi­li da macchine, sono quelli del commercio al dettaglio, della manifattur­a e dei servizi finanziari. In pratica tutti i comparti dell’economia. Sempre McKinsey ha elaborato un modello predittivo per capire se un mestiere o mansione possa essere svolto da una macchina invece che da un uomo. Il modello si basa su 18 caratteris­tiche di base per ogni attività lavorativa per altrettant­i settori produttivi. Queste caratteris­tiche compongono a loro volta una serie di abilità di base, come le capacità cognitive, il linguaggio, la sensibilit­à sensoriale e via dicendo. Quando un software è in grado di compiere la maggior parte di queste abilità allora c’è il rischio concreto che la mansione sia eseguibile interament­e da una macchina. E se l’investimen­to finanziari­o per l’acquisto di que- sta macchina – aggiungiam­o noi – è minimament­e sostenibil­e (ovvero convenient­e in termini di costo-opportunit­à) da parte dell’imprendito­re, è certo che quel compito, svolto fino allora da un uomo, sarà fatto da un robot. La storia è sempre andata così e frenare il cambiament­o è utopico e anche un po’ ingenuo. Governarlo è però possibile. È qui che dovrebbe entrare in gioco la politica, la quale dovrebbe usare un po’ più d’immaginazi­one per cercare di limitare il più possibile i danni sociali causati dalla transizion­e tecnologic­a. Rivedere i modelli di welfare (non smantellar­li, s’intende), come pure i sistemi formativi, pensati per una società ancora di stampo novecentes­co, dovrebbe essere quindi un punto fermo di qualsiasi piattaform­a, se non ideologica – che non si usa più –, almeno programmat­ica. Tassare i robot per finanziare i sistemi di protezione sociale non dovrebbe essere giudicata un’idea di stampo luddista, ma una proposta di buonsenso per evitare il disgregame­nto della società.

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