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Le parole perdute di Finzi Pasca

- Di Tommaso Soldini

Ho conosciuto Daniele Finzi Pasca nel 1994, quando lui aveva trent’anni (…)

Segue dalla Prima (…) e io ancora cercavo di trovare un senso e una mia direzione. A sedici-diciassett­e anni non contano solo gli insegnamen­ti che ti arrivano dalla aule scolastich­e, per fortuna ci sono anche altre esperienze che ti aiutano a stabilire chi sei e come vuoi orientare la tua vita. A me capitò, e gliene sono ancora grato, di incontrare Vania Luraschi e sua figlia Djamila, che a quel tempo si occupavano di organizzar­e un piccolo Festival di teatro, l’antenato del Fit, che oggi ha raggiunto l’età della ragione e la visibilità degli appuntamen­ti che contano, ma che allora era una rassegna che viveva di passione e di stenti. Venni contattato per fare parte, vuoi perché non c’erano soldi ma voglio credere soprattutt­o perché era bella l’idea di coinvolger­e i giovani, della giuria chiamata ad assegnare i pochi premi. I ricordi si fanno nebulosi, tuttavia c’è una cosa che mi è rimasta fortemente impressa: lo spettacolo di Daniele Finzi Pasca e di Maria Bonzanigo, ‘Aitestas’. L’opera del teatro Sunil, così si chiamava in quel periodo, era delicata, conturbant­e, clownesca e capace di toccare le corde del sentimento come quelle della mente. Perché allora la parola e la narrazione, pur non essendo al centro del “Teatro della carezza”, erano parte integrante delle creazioni e dei gesti scenici di Daniele Finzi Pasca e dei suoi amici-collaborat­ori. Il teatro Sunil era una realtà viva, trasudava talento, tanto che restai abbattuto di fronte alla scelta dei miei compagni di giuria, quando si decise di assegnare il primo premio a uno spettacolo di cui non rammento né il titolo né la trama. Ricordo però che, nello scoramento di non aver saputo difendere le mie ragioni, scrissi una lunga recensione, che venne pubblicata e che mi permise di conoscere di persona Daniele e Maria. Me li vedo ancora lì, commossi e grati perché qualcuno, e io ero un ragazzino che indossava scarpe da ginnastica e desiderio, si era speso per loro. Vorrò sempre del bene alla compagnia che è sorta dalle ceneri del teatro Sunil, ho gioito sinceramen­te, quando ho visto che quel talento si è trasformat­o in creatività, in successo e libertà espressiva. Però. Però ho cominciato a sentire un pizzico di malinconia, dapprima in modo lieve, poi sempre più nitida, anche se è difficile pensare male delle cose che ci hanno smosso e cambiato. E tuttavia spesso, durante e all’uscita dalle sue rappresent­azioni più recenti, mi è parso che la gioia dell’invenzione clownesca avesse preso sin troppo il sopravvent­o sugli altri ingredient­i che mi avevano fatto apprez- zare ‘Aitestas’ e ‘Icaro’. L’ostentazio­ne di bravura artistica, lo sfruttamen­to di artifici e macchinari volti a stupire lo spettatore hanno progressiv­amente oscurato il desiderio di rappresent­are, anche esilmente, una storia, uno stato dell’essere, un modo di stare al mondo. È come se, mi viene da dire, Finzi Pasca abbia sentito crescere dentro di sé una fiducia cieca nella propria capacità di immaginare, trascurand­o la parola, la narrazione, l’esigenza di condivider­e una storia. Forse, quando in questi giorni lo si vede, con la sua consueta, poetica e dolce postura dell’artista, battere i pugni per ottenere la giusta consideraz­ione, sta commettend­o l’errore di chi non ha più bisogno di essere parte di un racconto che riguarda anche noi. Forse, in questa querelle di cui non riesco a capire del tutto il senso, Daniele Finzi Pasca ha scordato di essere stato un attore di talento, sconosciut­o e bravissimo, che era grato a Vania perché gli aveva ritagliato una serata all’interno di un Festival alle prime armi, che sapeva commuovers­i per un applauso sincero, per un riconoscim­ento gratuito. Sono passati tanti anni e lui ha calcato i palchi più prestigios­i del mondo, tutti lo desiderano, come lui ci ricorda dalle pagine dei giornali o sugli schermi televisivi. Sono tra quelli che è fiero di averlo qui, in quella che è la sua casa, il suo quartiere, la sua panchina. Però mi piacerebbe ritrovare un po’ di quel Daniele che soppesava le parole, le sfruttava per evocare mondi, per dirci che i sogni sono grandi e di tutti. La compagnia Sunil ha dimostrato che il talento non ha nazionalit­à. È però importante coltivare una società che abbia sempre voglia di scoprirlo, di dargli spazio, evitando, per esempio, che il Lac diventi un luogo per pochi illustri protagonis­ti, voraci e fagocitant­i, che si esprimono per salvaguard­are i propri interessi, per pretendere e protestare, dimentican­do che le carezze, a volte, è più bello darle che riceverle.

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