‘Network sì, ma non per manipolare’
‘Le città ci rendono intelligenti. Sono il posto dove andare se vuoi imparare come funziona il mondo moderno. Penso ai miliardi di persone nei Paesi sottosviluppati ancora impossibilitate a connettersi con le opportunità di imparare: se le aiuti a muoversi nelle città e a collegarsi puoi veramente migliorare la qualità della loro vita e stimolare la crescita in quei Paesi’.
È una delle idee su cui Paul Romer sta lavorando con il suo Progetto di urbanizzazione alla Stern business school e al Marron institute of urban management della New York University (Nyu), dove ‘L’Economia’ l’ha incontrato fresco del Nobel.
Lei è stato premiato per la sua teoria sulla crescita endogena. Oggi si parla molto di crescita “sostenibile”: che cosa significa secondo lei?
Credo che il termine ‘sostenibile’ sia intenzionalmente vago, capace di suscitare una reazione emotiva ed essere usato per una campagna politica. Ma dal punto di vista scientifico dovrebbe essere definito con maggior precisione. Può significare una crescita senza conseguenze negative sull’ambiente o anzi con effetti positivi. Un economistascienziato si dovrebbe chiedere allora che cosa succede se si cerca di crescere migliorando l’ambiente, ma non è suo compito dettare il che fare.
A proposito di ambiente e di climate change, lei ha detto che imporre una tassa sulle emissioni inquinanti può incentivare la scoperta di alternative: è così?
Ho detto che può rendere più facile trovare alternative, stimolando il processo di innovazione. Sembra costoso, ma potrebbe funzionare, come ha funzionato il sistema di incentivi finanziari (cap & trade) avviato negli anni Novanta dal governo Usa per ridurre le emissioni di anidride solforosa che causano le piogge acide: le aziende si sono adattate a un costo inferiore a quello temuto e l’ambiente è migliorato.
Gli incentivi offerti dal governo Obama alle tecnologie verdi non hanno però ancora prodotto alternative davvero convenienti a gas e petrolio…
C’è stata comunque una forte diminuzione dei costi dell’energia solare ed eolica. Il grosso problema oggi è l’immagazzinamento di questa energia alternativa, che è molto costoso. Ma sono fiducioso che il processo dell’innovazione e scoperta andrà avanti e troverà soluzioni tecnologiche.
C’è un governo con un giusto approccio nell’incentivare l’innovazione tecnologica?
La mia preoccupazione oggi è un’altra: come essere sicuri che l’innovazione tecnologica porti benefici a tutti? Molti indizi indicano che l’attuale tendenza nell’uso della tecnologia non crea benefici estesi a tutti. Prendiamo il caso della privacy: anche questo termine è confuso, come è vaga la richiesta di ottenere il consenso per l’uso dei dati degli utenti. Io adotterei una regola semplice: un’azienda non può usare i dati degli utenti se pochissimi di loro – diciamo meno del 5% – capiscono che cosa se ne fa. Questo impedirebbe alle aziende di fare cose di cui loro stesse sono imbarazzate e promuoverebbe più trasparenza.
Parlando di privacy ovviamente si pensa a Google, Facebook e agli altri Big di Internet: se la crescita dipende, come lei spiega, dalla connessione di un numero sempre maggiore di persone che scambiano idee, Facebook & co. hanno avuto un ruolo positivo in questa direzione, o no? E ce l’hanno ancora?
Anche qui, cerchiamo di essere precisi: che cosa significa ‘connettere la gente’? Nelle città quello che connette la gente sono i tubi, le strade, i marciapiedi. Sono le ‘condutture stupide’ cioè neutrali: le persone le usano per farci quello che vogliono loro. I network vanno bene se
non sono usati invece per manipolare le persone.
Fanno bene allora le autorità europee ad essere più severe di quelle americane nel regolare Google & co.?
Bisogna dar credito alle autorità europee di prendere più sul serio il problema della privacy. Tuttavia lo fanno seguendo una strategia legale che non funziona. Ripeto: basterebbe fare un sondaggio a campione fra gli utenti delle aziende high-tech e chiedere se capiscono come vengono usati i propri dati; e se risponde sì solo una piccola minoranza, bloccare quell’uso.
La Cina è un buon esempio, lei ha spiegato, di come il tasso di crescita può essere enormemente accelerato nei Paesi in via di sviluppo dalla creazione di grandi città – stile Shenzhen – con nuove politiche che attirano investimenti esteri e popolazione. Che dire però della sua politica sulla proprietà intellettuale, una delle questioni al centro delle dispute commerciali fra Washington e Pechino?
Nelle relazioni fra Paesi, bisogna vedere se stanno nello stesso gruppo e quindi se per loro valgono le simmetrie. Europa e Usa, ora, stanno nello stesso gruppo. La Cina? Da Paese in via di sviluppo è cresciuto e ha l’ambizione di diventare leader sulla frontiera della tecnologia. Ma ha aggiustato il suo sistema per essere adeguato a questa responsabilità? Bisognerebbe rispondere sulla base dei fatti – io non li conosco – non delle lamentele delle aziende.
In Europa e in particolare in Italia c’è l’emergenza immigrati: lei ha proposto la creazione di “città-stato” per accoglierli. Come funzionerebbero?
Voglio sottolineare che questa mia idea è la peggior soluzione alla crisi dell’immigrazione… eccetto tutte le altre. Che non ci sono. Il problema è serissimo: il
mondo rischia la distruzione di istituzioni costituite da secoli. La strategia di accogliere gli immigrati e assimilarli funziona con un basso flusso di immigrazione. Diverso è quando il flusso cresce parecchio e gli immigrati sono milioni. Che cosa può succedere se tentiamo qualcosa di diverso?
Ce lo spiega?
Immaginiamo di replicare il caso di Hong Kong: era un villaggio nell’Ottocento quando la Gran Bretagna l’ha trasformato in una città-stato, con regole indipendenti dalla Cina, in grado di attirare investimenti e accomodare milioni di cinesi immigrati. Un Paese o un insieme di Paesi potrebbe provare la stessa cosa in Europa: gli immigrati ci andrebbero attirati dalle opportunità economiche, accettando di rispettare le regole del governo democratico della nuova città e non rappresenterebbero una minaccia per gli abitanti del resto del Paese.