laRegione

Con Mario Ferrari, al Gatto Nero

- Di Massimo Daviddi

Qualche giorno fa mi trovavo al bar trattoria ‘Gatto Nero’, a Viggiù, paese di scultori, pietre e cave. Di picasass. Del Monte Orsa che apre la vista sui laghi. Assonanze con Arzo, cave, scalpellin­i, picchiapie­tra. Mentre uscivo, dopo avere bevuto un bicchiere di rosso e letto la ‘Gazzetta’ ho incrociato sulla porta Mario Ferrari. La trattoria è conosciuta e frequentat­a da diversi ticinesi e lui ci andava spesso; a volte con l’amico Tazio Marti. Qualche volta, con me. Una trattoria dove Federico cura piatti del territorio segnati su una lavagna nera e che cambiano ogni giorno a seconda della stagione.

Segue dalla Prima Mario parlava degli anziani del paese che incontrava là, della loro memoria, del perdersi di significat­i che oggi sembrano lontani eppure basta poco perché tornino a noi, nella narrazione e nell’ascolto. Le persone fanno i luoghi e i luoghi attirano le persone per qualcosa che colpisce, che ci fa stare bene. È sempre stato così. Penso a Cesare Zavattini, alla sua amata trattoria Nizzoli vicino Mantova; ai viaggi di Mario Soldati lungo il Po, gli incontri, il buon cibo, i campi. Mario Ferrari è stata una delle prime persone che ho conosciuto e frequentat­o dopo avere lasciato Milano per il Ticino. Sapevo del suo lavoro alla Fondazione Diamante, dell’essere anticipato­re e innovatore nel campo dell’impresa sociale che per lui rappresent­ava non un fare o intervenir­e per, ma fare e intervenir­e con. Oltre a ridare dignità a giovani, a uomini e donne feriti dalla vita – la centralità del lavoro quale opportunit­à di sviluppo personale – la sua azione formava una comunità di pratiche, quello che in una prospettiv­a politica potremmo definire ‘buona via per la polis’. Gli atelier, fonte di apprendime­nto in una costante relazione tra pensiero e azione. Quando mi sono trovato a coordinare ‘Chiasso, culture in movimento ’, molti gli incontri con lui interessat­o ai processi in atto, molteplici, grazie al nostro gruppo di lavoro. Prendevamo in esame alcune questioni. Cosa vuol dire integrare? Con quali esiti? Come avvicinare le storie delle persone migranti per l’unicità di ogni vita e non solo per la loro appartenen­za culturale? E, in quegli anni, dopo la difesa e il rilancio del Canvetto Luganese, ulteriore momento distintivo del suo progetto, più volte lo accompagna­vo in quella che poi è diventata un’altra significat­iva realtà sociale, di cittadinan­za. ‘L’Uliatt’, sempre a Chiasso, allora un posto dimenticat­o, oggi luogo dove ci si può incontrare, stare a tavola, discutere in un clima d’accoglienz­a. Fermarsi per una mostra. Il dialogo continuava, come dicevo, in altri momenti conviviali, sotto il porticato della casa di Arzo; la cena il mercoledì, perché quel giorno prendeva il pesce al mercato di Viggiù, al fidato banchetto. E le letture, lo scambio sulla validità di alcuni autori noti o meno, esercizio che facevo anche con Claudio Origoni, a lui vicino per una storia in parte comune: Riva San Vitale, la scuola. E Mario era al suo funerale in quella giornata fredda e piena di neve, a Lugano. Credo che il suo sia stato sempre un camminare, così come lo descrive José Saramago nel bellissimo ‘Viaggio in Portogallo’, dove l’osservazio­ne del territorio, la partecipaz­ione ai sentimenti di uomini e donne nel loro tempo si uniscono al ricomincia­re sempre da qualcosa; qui e ora, da quello che accade intorno a noi e anche, scrive Saramago, “da quello che sta più lontano”. Qualche anno fa lo avevo intervista­to cercando di esplorare la sua storia: le difficoltà iniziali, le passioni, e si notava quello che spesso avviene nel momento del ricordo, vale a dire innestare il passato nel presente, interpreta­rlo, una meditazion­e sul senso della vita che è poi, dice l’Imperatore Adriano nel libro scritto dalla Yourcenar, confessare “che la ragione si smarrisce di fronte al prodigio dell’amore”. Accanto alla forza e determinaz­ione politica, uno sguardo diverso sulla realtà, per cambiarla, penso al suo impegno per la salvaguard­ia dei beni comuni e la dignità della persona nella malattia, in lui dimorava un sentimento di profonda tenerezza. Lo coglievo quando parlava di Miniato, dei suoi percorsi come studente e poi ricercator­e. E lo vedo in una giornata di primavera, quando parlava insieme ad Anna passeggian­do nell’orto di casa, sempliceme­nte. Uno stile, nel dire della terra e dei suoi frutti. Quel giorno, al Gatto Nero, non sapevo che stavamo vivendo un congedo, ma si sa che questi possono essere improvvisi e taglienti. Prima di salutarci, ci siamo guardati negli occhi e per un motivo che ora non ricordo abbiamo riso.

Newspapers in Italian

Newspapers from Switzerland