laRegione

‘Da ora in avanti, chi subisce non taccia più’

- di Davide Martinoni

«Per un mese si è tenuto tutto dentro. Non voleva farmi preoccupar­e. Posso solo immaginare il peso che ha dovuto sopportare». D., il papà della recluta ticinese vessata a Emmen, ha lo sguardo triste e determinat­o assieme. La tristezza è dovuta all’umiliazion­e subita dal ragazzo, un 24enne descritto come «solare, tranquillo, con la sua cerchia di amici e la ragazza, non certo uno sfigato come questa vicenda potrebbe far pensare»; la determinaz­ione viene invece dalla «grande occasione che ci si presenta ora, a più livelli. Il primo è che certe integrazio­ni di piccoli nuclei di reclute ticinesi (tre in questo caso) in contesti affollati da commiliton­i di altre regioni linguistic­he possano venire in futuro evitate. Il secondo è che aprendo il vaso di Pandora si parli da ora in avanti apertament­e di circostanz­e simili per denunciarl­e con fermezza. Mai più deve accadere che chi subisce poi taccia». D., sollevato dalle «centinaia di attestazio­ni di solidariet­à che mi sono giunte dopo il servizio televisivo», è reduce da un incontro con il direttore del Dipartimen­to delle istituzion­i Norman Gobbi: «Non appartenia­mo allo stesso partito, ma devo dargli atto di grande prontezza e sensibilit­à. Gli stessi pregi che ho avuto modo di vedere nella Giustizia militare per il modo in cui ha reagito. Ci sentiamo sostenuti, e questo, adesso, è fondamenta­le». Un sostegno che il figlio – ora come noto dislocato in Engadina – avrebbe avuto privatamen­te anche dal tenente della sua compagnia di Emmen: «Gli ha espresso la massima solidariet­à e chiesto se avesse bisogno di sostegno psicologic­o. Avrebbe anche potuto smettere subito con la Scuola reclute, ma mio figlio ha rifiutato perché tutto sommato con gli altri ragazzi si trova bene. Si sono già tutti scusati per quanto avvenuto. Se vi sono stati soprusi, anche in precedenza, non è causa delle altre reclute, ma dello strano meccanismo che si crea quando v’è un intervento gerarchica­mente vincolante di fronte al quale è difficilis­simo reagire». Ed è proprio quanto avvenuto il 14 settembre: «I ragazzi erano nel bosco – racconta D. – e giocavano fra loro a tirarsi noci e sassolini: niente di che. Poi è intervenut­o questo graduato che ha preso mio figlio “dal mazzo” – ma avrebbe potuto scegliere qualcun altro, perché molti altri avevano le sue stesse responsabi­lità – per farlo diventare vittima di quella tremenda parodia del plotone d’esecuzione. Gli stessi suoi compagni ticinesi sono stati costretti a “lapidarlo” assieme agli altri. Dal video si vede chiarament­e che in quel momento mio figlio non è più lui: teme, a giusta ragione, le possibili conseguenz­e fisiche». Conseguenz­e che erano ben visibili sul corpo: ecchimosi e lividi su schiena e collo, ora spariti, contrariam­ente al ricordo di quanto subito.

‘Mio figlio ha sempre creduto nell’esercito, e ci crede ancora’

«Eppure – ricorda il papà – nell’esercito mio figlio ha sempre creduto e crede ancora. Figuriamoc­i che dopo la visita di reclutamen­to aveva ricorso contro la decisione di destinarlo alla Protezione civile. Ottenendo poi la sua incorporaz­ione. Ci credevo anch’io, quando avevo la sua età. Dopo 200 giorni di servizio, a causa di un incidente ero passato alla PCi, dove sono diventato comandante di compagnia con il grado di capitano. Ho sempre preteso il massimo rispetto per le reclute. E lo stesso criterio l’ho poi applicato a scuola nei confronti degli allievi (D. ha un ruolo di responsabi­lità in ambito scolastico nel Locarnese, ndr)». Nell’immediato, mentre il ragazzo concluderà la sua Scuola reclute, la Giustizia militare ha dato a D. la possibilit­à di seguire il figlio nell’iter giudiziari­o: «Sì – dice il papà –, lo accompagne­rò in questo cammino. Lo vedo sereno, adesso, perché finalmente si è liberato. Ma se avrà bisogno di me, io ci sarò». Una brutta storia che però, vedi articolo a lato, non ha minato la fiducia nell’esercito.

Newspapers in Italian

Newspapers from Switzerland