laRegione

C’è poco da ridere

- Di Erminio Ferrari

Alla fine, Luigi Di Maio non ha denunciato nessuno. La manomissio­ne del decreto fiscale, se c’è stata, si è risolta in nulla, visto che il testo manipolato, esibito in tv con sdegno dal vicepresid­ente del Consiglio, si è rivelato una patacca. Con ammirevole solidariet­à di alleati, i partner leghisti di governo hanno commentato che se i grillini non sanno leggere, e men che meno scrivere una legge, sono affari loro. E imparino a farlo, prima di evocare complotti. Ma spenta l’eco delle risate, bisognerà pur chiedersi se davvero c’era da ridere. Le manine, le manone, un presidente del Consiglio “a sua insaputa”, un aspirante ducetto che si sente “a casa” a Mosca, una macchietta da avanspetta­colo che si produce in numeri d’arte varia nel teatrino di Bruno Vespa: se è vero che spesso il registro grottesco rappresent­a la realtà meglio di tante analisi accurate, sarebbe un grave errore scambiare la maschera per il volto autentico delle cose. L’episodio puntuale di un decreto fiscale che di fatto condona reati che arrivano fino al riciclaggi­o non è più grave di molti altri (nel “decreto Genova” è finita anche una sanatoria per gli abusi edilizi compiuti a Ischia…), mentre la figuraccia rimediata da Di Maio non è più meschina delle precedenti; ma rischiano di fare da schermo al più grave disastro di senso e di capacità di cui le forze insediate al governo in Italia sono espression­e. E di cui non si curano, se non per gli effetti che talune situazioni producono sul proprio seguito. Così, i ministri 5Stelle sono disperatam­ente impegnati a dimostrare al loro elettorato che i rospi alla cui ingestione lo stanno obbligando non sono tali: dal gasdotto “Tap” in Puglia (e chissà mai che anche la Tav…), al raddoppio dei tempi delle procedure di esame delle richieste d’asilo, a un regime fiscale che premia evasori e riciclator­i. Sull’altare delle ambizioni di governo hanno immolato gli slogan e le pratiche da cui originò il loro successo, e per restarvi hanno stretto un patto con un diavolo di cartapesta, che una temperie storica precisa potrebbe tuttavia trasformar­e in “uomo forte”, non essendo poi così lungo il passo dal balcone di Facebook a quello di Palazzo Venezia. Catastrofi­smo? Felici di correggerc­i, se sarà il caso, ma caso non è se negli stessi giorni in cui Salvini opponeva un “me ne frego” alle intemerate di Bruxelles, Di Maio assicurava “noi tireremo dritto”, che nel vocabolari­o storico d’Italia rinviano a un’epoca precisa. Mentre l’assicurazi­one di Salvini “gli italiani, che sono sempre generosi sapranno darci una mano” non può che evocare, in chi la Storia un po’ la conosce, la campagna “oro alla patria” del “ventennio”. Si ha un bel dire, infine, ed è drammatica­mente vero, che la scomparsa della sinistra (cercata e dunque meritata) ha lasciato campo aperto a questi prodotti scadenti della postmodern­ità politica, ma non è l’ora dei rimpianti. È piuttosto il momento di dare il nome giusto alle cose: sull’Italia di oggi (e di conseguenz­a sull’Europa) incombe il fantasma di un nuovo fascismo. Aggiornato ai tempi, certo, senza baionette né passo dell’oca. Ma è bene ricordare. Anche Mussolini, uno che valeva una cicca, prese il potere più per l’inettitudi­ne di chi poteva/doveva impedirgli­elo che per capacità proprie; anche il fascismo varò i propri “decreti dignità”, istituì un sistema previdenzi­ale, discriminò i cittadini in base a una, presunta, appartenen­za razziale (Lodi, la mensa negata ai bambini stranieri, vi dice qualcosa?), ostentò disprezzo per avversari e regole condivise, individuò un nemico esterno a cui attribuire ogni male. E poi anche del fascismo si rideva volentieri…

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