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Quei centri da 8 metri

Chiacchier­ata amarcord con Rick Rinaldi, ex campione statuniten­se del basket ticinese degli anni d’oro, al Bellinzona prima e alla Muraltese poi. Tornato in Ticino a 16 anni dall’ultima volta (nel 2002 per il 50o della società locarnese), ha ricordato i t

- Di Dario ‘Mec’ Bernasconi

Dopo 16 anni – dal 50° della Muraltese nel 2002 – Rick Rinaldi è stato di passaggio in Ticino. Con un gruppo del quale fa parte anche Bob Morse, altro mito del basket (soprattutt­o varesino), ha fatto tappa dall’amico Guido Casparis all’Hotel Ronco e non ci siamo fatti scappare l’occasione per rivederlo – con me Marco, Daniele e Giorgio – e farci due chiacchier­e, ricordando i tempi in cui era prima compagno di squadra nel Bellinzona in Serie B e in A, e poi “mio” giocatore alla Muraltese nella lega cadetta. È il Rick di sempre, gioviale, scanzonato ma decisament­e schietto e aperto, capace di ricordare molte cose vissute nelle nostre due squadre. Rick, per quelli degli ‘anta’, era un vero mito, il giocatore spettacola­re che trascinava i tifosi e la palestra Arti e Mestieri a Bellinzona e quella di Locarno erano sempre piene: lui garantiva spettacolo, con quel tiro dagli otto metri che oggi vale tre punti e un tempo, purtroppo, solo due.

Rick, cosa rappresent­a il Ticino per te?

È sempre un’emozione forte tornare tra voi, perché è stato un periodo importante della mia vita. Qui apprezzo tutto, dalle montagne al lago, da Piazza Grande ai castelli, ambienti dove ho vissuto momenti molto belli e intensi e dove ho trovato amicizie che durano nel tempo e nel cuore.

Cinque stagioni, tre a Bellinzona e due nella Muraltese, tra serie B e serie A. Che anni sono stati?

I tifosi e anche la gente non tifosa veniva in palestra perché c’era spettacolo, anche se non si vinceva sempre. Il basket era una calamita e io ero felice di queste testimonia­nze. Mi ricordo che un sabato di febbraio nevicava. Sono arrivato in palestra a piedi perché non si poteva fare altrimenti, ma c’era comunque un grande pubblico. Allora ho detto al Paso che volevo fare qualcosa di speciale per ringraziar­lo di questa fedeltà: mi pare fosse contro il Renens, ho messo 78 punti, 49 nel secondo tempo, un record che credo sia tale ancora oggi.

Già una settimana prima, a Neuchâtel, avevi fatto un botto oltre i 70 punti...

Beh, è stato un po’ particolar­e: non volevo che si andasse ai supplement­ari perché avevo un appuntamen­to in Ticino che non potevo mancare e i tempi erano stretti. Siamo sul 102 pari a 7-8 secondi dalla fine. Ricevo palla, faccio tre palleggi e tiro da poco oltre la metà campo: 102 a 104, doccia, treno e via, appuntamen­to rispettato.

Ma con i compagni di squadra e con gli allenatori come funzionava?

Non ero un giocatore facile da gestire, perché io andavo in campo solo per vincere e facevo di tutto per farlo. Spesso ero fuori dagli schemi, cercavo sempre il canestro, però con la consapevol­ezza di giocare anche per la squadra. E allora posso dire che cercavo anche di mettere in condizione i miei compagni di dare il massimo, di farli rendere secondo le loro possibilit­à.

Fra Bellinzona e Muraltese c’era grande rivalità. Come è stato passare da una sponda all’altra?

Diciamo facile, visto che c’erano altri ex compagni: ma quelli di Muralto mi hanno sempre rinfacciat­o un derby che loro hanno perso dopo un mio canestro a fil di sirena, manco a dirlo, da nove metri che ci aveva portato ai supplement­ari, partita poi vinta dal Bellinzona. Ma poi ho avuto modo di ripagarli con partite di spessore e belle vittorie.

E dopo il basket in Ticino il rientro negli States...

Già, e sono stati tempi duri per me. Un aneddoto: a 34 anni, sono entrato in un negozio a prendere un paio di scarpe da basket e ho dovuto pagarlo! Lì ho preso coscienza che era tutto finito, e non è una battuta. Era prendere consapevol­ezza che dovevo voltare pagina. Ma non ho passato un bel periodo, spesso ero in crisi depressiva e non riuscivo a uscirne. Ho fatto diversi lavori, in una television­e a metà tempo, coach all’università a metà tempo, camp estivi di basket e altri lavoretti vari, ma nulla di duraturo.

La svolta?

Finalmente, nel 1999, ho cominciato a lavorare a un progetto di inseriment­o, a fine carriera, dei giocatori profession­isti nel mondo “reale”. Un percorso che conoscevo bene e vissuto sulla mia pelle. Il progetto Sportscast­er U, con la Nbpa, società che accomuna la Nba con il sindacato dei giocatori, in un programma della Syracuse University, poi adottato anche da altre università. Per me sono stati 18 anni di lavoro molto intenso, ho seguito oltre 70 giocatori fra i quali anche un certo Shaquille O’Neal.

Un appoggio fondamenta­le per i giocatori?

Direi proprio di sì, perché molti di loro terminano di giocare, magari con un bel conto in banca, ma senza nessuna idea del mondo all’infuori del basket e di come lo si vive. Per anni hanno vissuto in “prima classe” (alberghi, aerei, sfizi...), non hanno mai dovuto preoccupar­si di nulla, tutto era programmat­o e i loro bisogni soddisfatt­i. Ma, terminato il percorso profession­istico, non sapevano da che parte girarsi, con il rischio di perdere tutto in poco tempo, compresa la loro identità. Ecco perché questo progetto ha avuto successo, proprio perché è fondamenta­le metterli nella condizione di cominciare bene una loro seconda vita, quella nel mondo vero, quello con i problemi quotidiani e un contesto da scoprire sulla propria pelle. Insomma, sviluppare la fiducia in sé stessi, in un milionario incapace di muoversi da solo.

E oggi?

Oggi non faccio più nulla. Ho una vita tranquilla, seguo i miei tre figli anche se sono tutti ultra ventenni, mi godo il tempo con mia moglie e mi occupo di faccende quotidiane, senza stress, dove il basket non è più una priorità. La vita offre molto, basta saper scegliere ciò che è meglio in quel momento. Come essere qui oggi.

Emozioni nell’ultimo abbraccio, un sorriso e una battuta sul prossimo incontro: ci vediamo fra trent’anni? Facciamo prima, non si sa mai. Bye.

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In una partita segnò la bellezza di 78 punti, di cui 49 nel secondo tempo
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In compagnia di Bob Morse, altro mito del basket

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