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Ma nuovo davvero

- Di Lorenzo Erroi

D’accordo, la sinistra le prende quasi sempre. È così da un pezzo, non è più una buona scusa per piangersi addosso; ché poi qualche successo, ultimament­e, si è anche visto. Con tutto che una rondine non fa primavera, prendete la Baviera. Vero, i voti della Spd si sono dimezzati. Ma c’è anche il raddoppio dei Verdi. Un partito uscito dal radicalism­o ecologista e dalle nostalgie extraparla­mentari, arrivato a conquistar­e il secondo posto in un Land iperconser­vatore. Senza cedere di un millimetro di fronte alla xenofobia e all’antieurope­ismo à la page, i Verdi hanno scommesso su volti nuovi (…)

Segue dalla Prima (…) e sull’esistenza di cittadini cosmopolit­i e libertari, attenti ai diritti umani ma anche a quelli sociali. A loro hanno saputo offrire una visione alternativ­a, pragmatica certo, ma non succube di quanto dettato dai partiti storici. Questi elettori non saranno la maggioranz­a assoluta, però ci sono: e se devono votare l’imitazione sbiadita delle destre, piuttosto stanno a casa (l’affluenza è passata dal 63,6 al 72,5%, anche se non è solo merito dei Verdi).

Altre rondini

Poi c’è la Spagna di Pedro Sánchez, la cui finanziari­a ha spinto il deficit oltre quanto concordato a Bruxelles, un po’ come quella italiana. Ma invece di comprare consensi con sussidi a pioggia e condoni fiscali, Psoe e Podemos si sono concentrat­i in modo costruttiv­o sulle fasce più deboli: congelando l’affitto nei quartieri popolari, aumentando di un quinto il salario minimo, raddoppian­do gli aiuti alle famiglie. E poi più soldi per la ricerca, l’istruzione, i nidi e le materne. Una manovra da 11 miliardi (contro i 37 italiani) fatta con la testa, tanto che è stata perfino premiata dai mercati. Il suo machiavell­ico euroscetti­cismo può anche non piacere, ma una sinistra capace di entusiasma­re è anche quella inglese di Jeremy Corbyn. Uno che molti – mi ci metto anch’io – avevano preso per un paleomarxi­sta redivivo. E che invece, contestand­o l’austerity e i suoi granitici ragionieri, ha risposto ai sospiri di una classe media impoverita, tagliata fuori dalla privatizza­zione di servizi cruciali quali l’istruzione; bisognosa insieme ai più poveri di solidariet­à sociale, senza la quale per disperazio­ne ci si butta in braccio ai populisti. Il numero di iscritti ai Labour è raddoppiat­o; alle ultime elezioni, pur restando all’opposizion­e, il partito ha superato il 40% – il risultato migliore dal 2001 – con un programma che in altri tempi sarebbe stato considerat­o moderato: più asili nido e scuole gratuite, più tasse sui ricchi e le aziende, ma a livelli molto più bassi di quelli vigenti nell’era That- cher. Misure che sembrano radicali solo se si erge a feticcio della sinistra l’ipocrita Cool Britannia di Tony Blair. Infine chissà cosa sarebbe successo se in Usa, invece della sbobba riscaldata di casa Clinton, si fosse proposto agli elettori un Bernie Sanders. In fondo, se Trump riesce a vendersi come difensore dei lavoratori è anche perché i liberal si sono arresi a politiche sociali ed economiche a fine corsa, accettando pavidament­e che “there is no alternativ­e”, non c’è alternativ­a (il vecchio slogan della Iron Lady).

Minoranza silenziosa

Insomma, forse una ‘massa critica’ più progressis­ta c’è ancora, a volerla cercare. Per intercetta­rla, però, sono necessari alcuni cambi di paradigma. Rilanciare la tutela sociale, ma senza scimmiotta­re formule vecchie di cinquant’anni: penso a un reddito di cittadinan­za fatto bene, invece del solito sussidio a fondo perduto che ne è la declinazio­ne grillina; o a un welfare che sia accessibil­e a chi è troppo debole per muoversi nei labirinti burocratic­i (coi loro immarcesci­bili minotauri). Poi serve il coraggio di dire che un’economia non si regge solo sugli sgravi ‘supply side’ e sulle riduzioni d’imposta: gli ultimi vent’anni mostrano che dall’alto al basso, fra dumping e delocalizz­azioni, cadono solo le briciole. E ci vuole la disponibil­ità a far saltare il banco quando queste politiche vengono rimescolat­e coi soliti giochini delle tre carte, tipo ‘riforma fisco-sociale’. Magari così si toglierebb­e terreno non solo al nazionalis­mo protezioni­sta, ma anche a quei populismi di sinistra che al ‘pensiero unico neoliberis­ta’ oppongono purismi petulanti e giustizial­ismo di classe, contribuen­do all’eterna scissione dell’atomo. È poi sacrosanta l’enfasi sui diritti umani e civili, senza i quali la sinistra non sarebbe sinistra: ma quando le difficoltà economiche fomentano il più miope egoismo, è anzitutto sul piano dei diritti sociali che si guadagnano consensi e si evitano i pogrom; ferma restando la necessità – l’urgenza – di una politica di accoglienz­a che non demonizzi i migranti, e neppure li confini nei ghetti di un’assistenza senza integrazio­ne.

Niente da perdere

Poi magari non si vince subito. Ma siamo sicuri che sia meglio ciclostila­re ideologie estranee e consunte per prendere voti? Così si rimane ostaggio di narrative altrui, senza mai scrollarsi di dosso l’etichetta di radical chic: e avremo un bell’annacquare i nostri calici con lacrime amare (“pover tapin / e povero anche il vin”, chioserebb­e Enzo Jannacci). Tanto più che ormai, in Europa come in Ticino, è tutta una rincorsa a destra: i liberali scaricano i radicali, i democristi­ani sbolognano i cristiano-sociali, e tutti fanno il verso al garrulo proselitis­mo delle leghe. Inseguendo un modello che non ha nulla di moderno, e tutto sommato neppure di liberale (se ne è accorto perfino l’‘Economist’). Chissà che allora, dall’altra parte della scacchiera, non si liberi una casella per qualcosa di nuovo. Ma nuovo davvero.

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