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Il figlio del tintore

Venezia celebra con due mostre i cinquecent­o anni dalla nascita di Jacopo Robusti detto Tintoretto A Palazzo Ducale le opere della maturità, mentre le Gallerie dell’Accademia indagano le origini dell’artista

- di Claudio Guarda

A 500 anni dalla sua nascita, Venezia celebra Jacopo Robusti (1519-1594), il figlio del tintore, detto il Tintoretto: perché era basso di statura ma, come artista, capace di elevarsi su cime di straordina­ria altezza. Lo fa con due rassegne di ampio respiro e indubbia qualità: l’una, a Palazzo Ducale, con 50 dipinti e 20 disegni della sua maturità, alcuni dei quali – veri capolavori – ancora in collocazio­ne originaria; l’altra, alle Gallerie dell’Accademia, con 60 opere di cui 26 sue, titolata “Il giovane Tintoretto”, dove si indagano – problema ancor oggi molto dibattuto – origini e fonti della sua pittura per rapporto al contesto artistico e culturale veneziano negli anni trenta-cinquanta, mediante confronto diretto tra dipinti suoi e di suoi contempora­nei a partire da Tiziano e Veronese. Per concludere che questo nostro artista, oltre a quello veneto, ha senza dubbio ben conosciuto anche l’altro grande filone della pittura cinquecent­esca: quello tosco-romano e manieristi­co, tanto da far presumere un suo precoce viaggio a Roma: Michelange­lo e Raffaello, in primis, ma anche il Pordenone, Salviati, Vasari nonché Giulio Romano a Mantova (che sappiamo visitò nel 1541). Si racconta che sulla parete del suo primo studio avesse scritto quello che per lui suonava come un programma: “Il disegno di Michel Angelo e ’l colorito di Titiano”. Era un’ideale aspirazion­e a far sintesi tra due orientamen­ti molto diversi, ma che lui seppe incrociare, ottenendo risultati di inaudita forza e novità, fondendo ma anche trasforman­do i suoi modelli, spingendo il tutto dentro una pittura mossa e concitata, con uno stile drammatico e rivoluzion­ario che andava oltre la tradizione veneta del momento: lontano quindi tanto dal colorismo e dalla sovrana compostezz­a di Tiziano, quanto dalla aristocrat­ica pittura del più giovane Veronese. Figlio del popolo, di un buon artigiano, e dotato di buon fiuto, aveva presto capito che per emergere doveva confrontar­si direttamen­te con il grande Tiziano, operando sul piano di una forma in grado di bloccare il passo anche all’osservator­e più frettoloso: doveva inchiodarl­o lì con una pittura rapida, efficace, travolgent­e e di grande effetto. Come aveva dimostrato di saper fare con uno dei primi suoi grandi teleri che aveva shoccato per l’inusitata sua forza rappresent­ativa: ‘Il miracolo di San Marco’, del 1548, presente in mostra. Insomma aveva presto capito che avrebbe dovuto farsi largo a suon di gomitate in una Venezia occupata dall’altissimo Tiziano che poco nulla lasciava agli altri a partire da un certo livello in su di committenz­a. E che certo non lo aveva agevolato: si tramanda che, poco più che ragazzo, fosse entrato come apprendist­a nella bottega di Tiziano, ma che costui lo avesse presto allontanat­o quando si accorse del talento di quel giovane destinato a diventare un suo antagonist­a. Sì, perché lui era basso e rotondetto, ma dotato di forte carattere e grande intelligen­za: ambizioso e audace, impaziente e temerario, dotato per di più di inusitata rapidità esecutiva. Come dimenticar­e la prevarican­te sfida lanciata ai colleghi pittori in occasione del concorso del 1564? Tintoretto ha 45 anni ed è già un pittore ben affermato, ma vuole a tutti i costi diventare pittore ufficiale della gloriosa Scuola Grande di San Rocco, a Venezia (da vedersi assolutame­nte!), anche se le modalità del concorso non giocavano a suo favore. Tempo poche settimane, tutti i concorrent­i dovevano consegnare i loro bozzetti per l’ovale dedicato a ‘San Rocco in Gloria’. Lui, stando a quanto racconta il Vasari, anziché presentare il bozzetto esegue l’opera e, di notte, la fa posizionar­e esattament­e nel luogo prestabili­to. Stupore e malcontent­o, c’è chi protesta per la scorrettez­za, chi lo vorrebbe eliminare, ma Tintoretto risponde che quello era il suo modo di lavorare e che, anzi, avrebbe donato il dipinto alla pia opera. Inutile aggiungere che ottenne l’incarico tanto desiderato. Con lui è l’intera società veneziana che entra in scena, compreso quel popolo lontano dalla sublime aristocrat­ica distanza di Tiziano e Veronese: un popolo disordinat­o e gesticolan­te nel quale egli si identifica (basti mettere a confronto gli autoritrat­ti di Tiziano e Tintoretto per coglierne la distanza!), un popolo che si accalca sui lati delle pitture, per vedere, per assistere ai sacri eventi, che porta pesi o lava piatti, come nelle sue ‘Ultime Cene’, o come la sua ‘Madonna dell’Annunciazi­one’, nella Scuola di San Rocco, ambientata in una povera stanza dai muri sbrecciati, accanto a una sedia spagliata, con Giuseppe fuori che taglia i suoi assi nella sua squinterna­ta bottega da falegname. Ma proprio grazie a questo, oltre che ai suoi effetti scenografi­ci, tra prospettiv­e fugate e bagliori di luce, tra drammi e folgoranti slarghi di luce, Tintoretto tira dentro anche lo spettatore: non gli trasmette più ordinati messaggi razionali, ma lo coinvolge sul piano emotivo, lo trascina e rende partecipe. Anticipand­o modalità espressive tipiche del barocco. E questa è anche la sua modernità.

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Il miracolo di San Marco, 1548

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