laRegione

Sovranismo Usa al primo test

- Di Aldo Sofia

Come mai un presidente che vanta record di crescita economica e di calo della disoccupaz­ione affronta un imminente voto col timore di una sconfitta? Eppure è quanto sta avvenendo negli Stati Uniti. Dove, fra tre settimane, la consultazi­one “di metà mandato” (si rinnovano la Camera e parte del Senato, più i governator­i di 34 Stati), potrebbe infliggere a Donald Trump il primo dispiacere elettorale. Il 6 novembre l’irruente e prepotente capo della Casa Bianca rischia infatti di perdere la maggioranz­a repubblica­na al Congresso. Più probabilme­nte – a credere ai sondaggi – con una sconfitta alla Camera dei rappresent­anti, mentre al Senato si confermere­bbe la supremazia del Grand Old Party, il partito che dall’ostilità iniziale nei confronti del ‘tycoon’ è passato a una sostanzial­e e docile sudditanza per chi l’ha imprevedib­ilmente riportato al potere. Si tratterebb­e comunque di una sconfitta. Nonostante gli ampi poteri di cui gode, un presidente americano alle prese con l’ostilità di uno dei due rami del parlamento incontra storicamen­te grandi difficoltà, deve dar fondo alla sua capacità negoziale, mentre l’arte del compromess­o non è certo la miglior dote di un uomo intolleran­te come Trump. Tra le cause di questa eventualit­à possono essere annoverati lo spettacolo della caotica gestione dell’Amministra­zione, la fuga di numerosi collaborat­ori, la sua condotta morale, l’ostilità di una parte crescente di elettorato femminile, l’attacco all’assicurazi­one sanitaria di Obama (che oggi risulta la principale preoccupaz­ione degli americani). Insomma, una somma di fattori emotivi e fattuali che in parte potrebbero annullare i successi di un rilancio economico (in realtà già iniziato con il suo predecesso­re) che molti analisti consideran­o ancora fragile: più che altro frutto del massiccio taglio delle tasse regalato alle imprese, che fa esplodere il deficit pubblico, toglie fondi agli aiuti sociali, sposta il fardello fiscale sulle future generazion­i. Specularme­nte, il test elettorale di novembre dovrà dirci se il partito democratic­o – uscito con le ossa rotte dalle ultime presidenzi­ali – abbia qualche possibilit­à di superare una crisi che è il risultato di mancanza di leadership, immedesima­zione con élite insensibil­i ai danni provocati dagli eccessi del mercato, rabbia per le crescenti diseguagli­anze. Non gli sarà facile mobilitare il proprio elettorato in una consultazi­one che abitualmen­te registra una bassa affluenza alle urne (soltanto il 36,7 per cento degli aventi diritto nel 2014). Ma, soprattutt­o, il partito è ancora imballato nel dilemma di fondo: da una parte rappresent­anti di una politica centrista tradiziona­le, dall’altra giovani candidati (soprattutt­o donne) che chiedono scelte sociali decisament­e più radicali. Le uniche, in effetti, che possano attirare l’interesse dei ceti medi sfiancati dalla crisi. Non bastano certo i sondaggi. Conoscerem­o solo il 7 novembre la conformazi­one della mappa parlamenta­re statuniten­se. E, soprattutt­o, se il sovranismo (America first) possa registrare il primo inciampo proprio là dove è stato forgiato.

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