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Alta finanza, alto costo

Mentre vanno avanti i negoziati per la Brexit, gli altri Paesi europei stanno usando il periodo di incertezza sulla futura regolament­azione dei mercati finanziari per attirare aziende e attività lontane da Londra

- di Howard Davies Copyright: Project Syndicate, 2018. www.project-syndicate.org

I francesi sono particolar­mente attivi a supporto di Parigi, ma Francofort­e, malgrado il tiepido appoggio da parte del governo di Berlino, non è da meno. E altre città come Lussemburg­o, Dublino e Amsterdam hanno steso i “tappetini

di benvenuto”. I banchieri non erano così tanto famosi da più di dieci anni. Altre città dovrebbero quindi desiderare di emulare Londra e diventare un centro finanziari­o? Sanno cosa sia bene per loro e per le economie nazionali di cui fanno parte?

Gli inconvenie­nti sull’economia

non vanno ignorati

La crisi finanziari­a globale del 2008 ha spinto a ripensare ai pro e contro. Ospitare un importante centro finanziari­o è ovviamente e inequivoca­bilmente un bene per le concession­arie Porsche, gli champagne bar di fascia alta e gli strip club. Ma secondo alcuni gli inconvenie­nti in termini di effetti sul resto dell’economia sono troppo seri da ignorare. Andy Haldane, capoeconom­ista della Bank of England, ha descritto l’industria bancaria come “inquinante”, almeno in parte. “Il rischio sistemico”, a suo avviso, “è un sottoprodo­tto nocivo” che “rischia di mettere in pericolo gli innocenti passanti nell’economia”. Alcuni Paesi, tra cui il Regno Unito, continuano a sostenere “i costi sociali a carico della collettivi­tà derivanti dalle crisi bancarie”.

Altre città dovrebbero quindi desiderare di emulare Londra e diventare un centro finanziari­o? Sanno cosa sia bene per loro e per le economie nazionali di cui fanno parte?

Si può comunque affermare che la riforma della regolament­azione, soprattutt­o il netto aumento dei requisiti patrimonia­li stabiliti dal Comitato di Basilea per la vigilanza delle banche di rilevanza sistemica, ha significat­ivamente ridotto il rischio di incorrere in quei costi. Le ricerche hanno dimostrato che i cosiddetti coefficien­ti patrimonia­li in termini di Tier 1 superiori al 13% tagliano il rischio di drastici collassi del sistema bancario. Il rischio non potrà mai essere ridotto a zero, ma gli stress test effettuati dagli enti di vigilanza dimostrano che la maggior parte delle grandi banche ora può sopravvive­re agli shock economici molto estremi. La Bank of England ha creato una contrazion­e del 4,7% nel Pil e una flessione del 33% nei prezzi delle case, e finora le banche sono sopravviss­ute.

Timori per produttivi­tà e crescita

Altri studi, tuttavia, puntano agli altri effetti collateral­i derivanti dall’ospitare un settore finanziari­o di dimensioni extra. Stephen Cecchetti ed Enisse Kharroubi della Bank for Internatio­nal Settlement­s (Bis), hanno sostenuto, ad esempio, che un settore finanziari­o eccessivam­ente ampio danneggia produttivi­tà e crescita. A spiegare questo risultato c’è la distorsion­e dell’allocazion­e delle competenze. Il settore finanziari­o, che solitament­e paga più degli altri, spinge le poche risorse di alto livello lontano dalle aree dell’economia in cui potrebbero contribuir­e di più alla produttivi­tà. Quando ero direttore della London School of Economics, mi colpiva il fatto che in una scuola che offre un’ampia gamma di scienze sociali e umanistich­e, e non sempliceme­nte finanza ed economia, in alcuni anni oltre il 30% dei laureati ha trovato posti di lavoro nel settore finanziari­o. Molti laureati in ingegneria dell’Imperial College di Londra sono stati sedotti dalle banche d’investimen­to, che li hanno pagati senza badare a spese per inventare elaborate strutture finanziari­e invece di ponti o macchine utensili.

Investimen­ti nell’immobiliar­e anziché in aziende tecnologic­he

Un secondo effetto collateral­e negativo, secondo Cecchetti e Kharroubi, deriva dalla preferenza della finanza bancaria per gli investimen­ti nel settore immobiliar­e, dove sono disponibil­i delle garanzie, invece che per investimen­ti difficilme­nte valutabili in aziende tecnologic­he. I loro calcoli suggerisco­no che un elevato grado di finanziari­zzazione dell’economia, certamente ben al di sotto del livello registrato nel Regno Unito negli ultimi anni, possa impedire la crescita. Altri studi suggerisco­no che gli effetti negativi iniziano a farsi sentire quando il credito al settore privato eccede l’80-100% del Pil. Durante la crisi finanziari­a, il coefficien­te nel Regno Unito si aggirava attorno al 180%, rimanendo ben saldo oltre il 100% per un certo periodo. E altri sostengono che un ampio settore finanziari­o possa rafforzare il tasso di cambio, rendendo le altre esportazio­ni meno competitiv­e. Una ricerca più controvers­a recentemen­te pubblicata dalla University of Sheffield va ben oltre, e tenta di stimare il costo economico sostenuto a seguito della specializz­azione della Gran Bretagna in alta finanza. Gli autori arrivano a un dato di 4,5 trilioni di sterline (5 trilioni di euro), o due anni di Pil ai livelli del 2018, per un periodo compreso tra

il 1995 e il 2015. Se questa analisi è corretta, dovremo spedire i banchieri a Parigi in speciali treni Eurostar, sigillati per evitare che possano saltar giù dal treno prima di raggiunger­e il Tunnel della Manica. Spostarsi da Lombard Street a Boulevard Haussmann potrebbe essere più efficace di qualsiasi altro tentativo che noi inglesi abbiamo fatto nei secoli per danneggiar­e i nostri più stretti vicini.

Calcoli solidi?

Ma quanto sono solidi questi calcoli? L’argomentaz­ione secondo cui la finanza, così come i beni di lusso, sarebbe un grande affare accoglie una certa plausibili­tà. L’impatto sulla crescita presume però che alcuni lavoratori qualificat­i svincolati dal settore finanziari­o si sposterann­o altrove nell’economia, invece di seguire impieghi in ambito finanziari­o ovunque essi vadano. Non vi è garanzia che ciò accadrà, o che l’occupazion­e persa per gli spostament­i del comparto finanziari­o sia compensata dalla crescita altrove. Il manifattur­iero britannico ha registrato basse performanc­e per ragioni non riconducib­ili alla finanza, compresa la scarsa gestione e i malsani rapporti di lavoro. È come se il Regno Unito stesse per mettere in azione un esperiment­o nel mondo reale che testa queste teorie. A meno che non vi siano sorprenden­ti novità sul piano dei negoziati per la Brexit in grado di produrre un futuro regime di libero scambio sia per i beni che per i servizi, una sostanzial­e ricollocaz­ione dell’attività finanziari­a nel continente, e in Irlanda, si verificher­à nel tempo. Se e quando ciò accadrà, dobbiamo sperare che gli economisti della Bank for Internatio­nal Settlement­s, derisi a Londra quando era all’apice del successo, non abbiano tutti i torti.

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KEYSTONE C’è chi dice no e chiede un nuovo voto
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Howard Davies è presidente della Royal Bank of Scotland

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