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La Svizzera, apripista europea

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La sua presenza a Lugano viene rimessa in discussion­e, eppure fu proprio in Svizzera che l’autogestio­ne sociale – inserita in un contesto di democrazia liberale e capitalist­a – mosse i primi passi. «Zurigo fu la prima città in Europa dove nacque una protesta urbana e libertaria – ha spiegato alla ‘Regione’ (cfr. edizione del 10 marzo scorso) Sandro Cattacin –, nei primi anni Ottanta: periodo di forti tensioni fra chi voleva più libertà e autonomia e che vi si opponeva». Il professore – che insegna sociologia all’università di Ginevra ed è esperto di politiche giovanili – ha chiarito che queste realtà si sono sviluppate in Svizzera perché «il terreno era fertile: lo scontro era più brutale rispetto ad altri Paesi. Le città elvetiche erano governate da forze conservatr­ici che non prendevano in consideraz­ione spazi culturali diversi da quelli già stabiliti. Il fenomeno è figlio proprio di un cambiament­o di mentalità avvenuto nella destra conservatr­ice: si è raggiunto un compromess­o». Un accordo che a Lugano si fatica però a trovare. «È una città con una doppia caratteris­tica, che la rende diversa dalle altre maggiori nel Paese – l’ipotesi dell’esperto –: fa parte di un agglomerat­o ed è facile svuotarla, se la sua creatività viene repressa, lo sbocco naturale è Milano. Inoltre, per ragioni turistiche, è una città che gioca la carta della tranquilli­tà».

‘Svolgono un ruolo aggregativ­o’

Secondo il professore, affinché si evitino episodi di violenza, è necessario che attorno all’autogestio­ne non vi sia un ambiente ostile, ma «un sostegno, finanziari­o e politico. Se una città si propone di essere innovativa e sperimenta­le, allora questi centri devono essere parte integrante della strategia». E se la Rote Fabrik di Zurigo è stata presa come «un buon modello», a Cattacin abbiamo chiesto cosa rende i centri autogestit­i «produttori di cultura diversa»? «La libertà e la tolleranza che li caratteriz­za. Se oggi nella cultura mainstream abbiamo espression­i artistiche irriverent­i, è perché la cultura dei margini è riuscita a imporsi. Possono poi svolgere un ruolo aggregativ­o per giovani fragili e a cui la società ha dato poche possibilit­à di sviluppare abilità e competenze».

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