laRegione

Incontrare la diversità

Intervista all’antropolog­o sociale Marco Aime, ospite giovedì del Centro profession­ale di Locarno

- Di Ivo Silvestro

L’umanità è percorsa da culture e tradizioni diverse. Ma, ci racconta Aime, ‘è difficile trovare il buono assoluto da una parte e il cattivo assoluto dall’altra’.

Dal Mali dei Dogon alla Val di Susa dei No-Tav alla Lampedusa degli sbarchi: l’antropolog­o Marco Aime si è sempre occupato dell’incontro con l’altro. E di questo incontro parlerà giovedì alle 20 al Centro profession­ale tecnico di Locarno, dove terrà un incontro pubblico per il ciclo la Scuola al centro del villaggio curato dal docente Lorenzo Scascighin­i.

Professor Aime, anche se biologicam­ente siamo un’unica specie, dal punto di vista culturale vi sono profonde differenze. Meglio parlare di cultura oppure, al plurale, di culture?

Tutte e due sono giuste. Da un lato parliamo di cultura, nel senso che esiste un qualcosa che accomuna tutti gli esseri umani, una capacità di adattarsi e sopravvive­re ai vari ambienti. Poi, all’interno di questo contenitor­e che chiamiamo cultura, nella storia e nel tempo si sono differenzi­ate delle specificit­à che fanno sì che dobbiamo parlare di culture al plurale.

Adattarsi ai vari ambienti. Ma le differenze sono riducibili a fattori ambientali?

Assolutame­nte no. Le prime differenzi­azioni culturali sono di tipo ambientale; dopodiché sono intervenut­i fattori di tipo storico e dobbiamo fare i conti con la storia, gli scambi culturali, gli incontri, i mescolamen­ti, i meticciati. Le ragioni per le differenze culturali sono molteplici e non necessaria­mente sono collegate al contesto ambientale, anche se l’ambiente è sicurament­e importante.

Abbiamo quindi diverse culture. Ma possiamo pensare a una gerarchia, a culture avanzate e altre arretrate?

Sul piano esclusivam­ente culturale non esistono culture superiori o inferiori alle altre. Ma se si prendono in consideraz­ione certi elementi, il discorso cambia: è difficile negare che, sul piano tecnologic­o, l’Occidente sia più avanzato di altre culture – o almeno lo sia stato, se pensiamo a quello che sono adesso Cina, Giappone, India. Ma su altri livelli il discorso cambia: ad esempio sulla conoscenza della mente, ci sono filosofie e forme di pensiero orientali che sono più avanti di quelle occidental­i.

Ci sono quindi culture tecnologic­amente più avanzate. E moralmente? Se pensiamo alla parità tra i sessi o alla schiavitù, possiamo parlare di culture più avanzate delle altre?

Il problema è mettere tutto sul piatto. Perché se prendiamo l’Occidente, certamente ha espresso momenti di grande apertura ma anche momenti di barbarie e violenza. E questo vale anche per altre parti del mondo: è difficile trovare il buono assoluto da una parte e il cattivo assoluto dall’altra. Se parliamo in termini di diritti, di riconoscim­ento dell’altro, ci sono stati momenti in cui questi hanno prevalso da una parte, momenti in cui qualcuno ha fatto un po’ da faro per gli altri. Penso alla Spagna negli otto secoli di dominio musulmano, quando vi era una tolleranza maggiore che nell’Occidente cristiano – mentre adesso la situazione è chiarament­e diversa.

Per i diritti, possiamo quindi confrontar­e le culture e affermare che alcune, adesso, sono più avanzate di altre?

Sì. Certamente il riconoscim­ento dell’altro – riconoscim­ento che possiamo chiamare “diritti” – è in certi momenti superiore da una parte e non dall’altra. Ma sono condizioni molto suscettibi­li di cambiare. Proprio in Europa stiamo assistendo in questi ultimi tempi a una regression­e rispetto a certi valori che in passato avevano caratteriz­zato tutta questa parte di mondo. Oggi stiamo tornando a una sorta di neotribali­smo.

A proposito di neotribali­smo, in una recente intervista, la storica delle religioni Daria Pezzoli-Olgiati osservava come i migranti non siano più identifica­ti dalla regione di provenienz­a, ma dalla religione.

Intanto è da marcare che, anche per la provenienz­a geografica, c’è comunque la tendenza a etichettar­e con una identità unica gli individui: dire che uno è nigeriano non significa nulla, vista la varietà e diversità presente nel Paese. È comunque vero che oggi assistiamo a una etnicizzaz­ione del migrante: un’etichettat­ura che appiattisc­e ancora di più le differenze individual­i e che si limita alla religione – ma questo quasi esclusivam­ente per i musulmani, nonostante le profonde differenze interne.

Un appiattime­nto che certo impedisce l’incontro con l’altro. Ma come può avere luogo, questo incontro?

L’incontro può avvenire in diversi modi. Di certo molto spesso questi che possiamo chiamare “processi di integrazio­ne” partono dal basso. E avvengono se si riesce ad abbandonar­e la tendenza classifica­toria con cui un po’ tutti conviviamo. Quell’idea per cui il marocchino è così, il senegalese è così; ma poi ci si incontra e scambiando due parole, anche su cose banali, ci si accorge di avere molti punti in comune. Su questo credo che un ruolo fondamenta­le l’abbia la scuola, in particolar­e quella elementare. È qui che avverranno i processi di integrazio­ne del futuro: i ragazzi che andranno a scuola in classi sempre più miste saranno abituati fin da piccoli ad avere a che fare con compagni di diverse culture.

Un’educazione alla diversità.

Sì, riconoscer­e nell’altro innanzitut­to una persona, un essere umano. Con delle diversità che certamente non possiamo far finta non esistano. E ci sono differenze che sono negoziabil­i e altre che lo sono meno: per fare un esempio banale, pensiamo da una parte al velo e dall’altra alle mutilazion­i genitali femminili.

La tendenza sembra essere però quella di una tolleranza zero.

Assistiamo a una fase di forte chiusura: la paura dell’altro è aumentata anche perché in generale sono cresciute le paure dei cittadini europei. Una insicurezz­a che rende più facile identifica­re l’altro come nemico.

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‘Riconoscer­e nell’altro innanzitut­to una persona, un essere umano. Con le sue diversità’

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