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I chierichet­ti di pelle nera e le parole miserevoli di Pantani

- Di Chiara Orelli Vassere

Dunque due ragazzini dalla pelle nera, proprio perché hanno la pelle nera, non possono servire in chiesa. Meglio, possono, ma disturbano, e se lo fanno è solo perché un sacerdote che traligna dai valori rossocroci­ati trascina con sé, in quel suo rovesciame­nto di valori, due veri e propri corpi estranei al tessuto sociale: neri, anziché bianchi; magari migranti, anziché di pura provenienz­a autoctona. Poco importa che questi due ragazzini siano in realtà svizzeri esattament­e quanto lo è colei che ha partorito il pensiero appena detto: svizzeri cioè di adozione, i primi perché adottati da genitori svizzeri, la seconda, Roberta Pantani, perché accolta, provenient­e da una patria diversa, dalla sua nuova nazione, anch’essa madre generosa. Un nero non può dunque essere cristiano, se i cristiani siamo ‘noi’, secondo la Pantani. Che infatti ha pure detto che quei bimbi non sanno nulla delle tradizioni cristiane: e spiace dovere comunicare alla signora che quell’Etiopia da cui provengono è cristiana dal primo secolo dopo Cristo, e che la Chiesa copta ortodossa etiope ha circa 45 milioni di fedeli, ed è dunque la più grande delle chiese copte orientali; così come una fortissima presenza cristiana (dal IV secolo) riguarda l’Eritrea, paese dal quale provengono molti dei migranti accolti attualment­e in Svizzera. La gravità e insieme esemplarit­à del pensiero della capodicast­ero Socialità e integrazio­ne del comune di Chiasso sta soprattutt­o nell’avere offerto un’idea di “nero” e di “bianco” generale, totalizzan­te: secondo una dicotomia potente, come le sono le rappresent­azioni mentali primarie, secondo cui nero è altro, è alieno, è solo corpo (il colore della pelle come cifra assoluta), ed è irriducibi­le a un bianco altrettant­o irreale e idealizzat­o, ma che pure mantiene e rivendica la sua identità di individuo-cittadino pieno, dotato di soggettivi­tà e di diritti. I due chierichet­ti di pelle nera, dunque, come due portatori della «forma nuovissima e definitiva­mente incancella­bile del peccato originale, il peccato d’origine», per dirla con Ezio Mauro che all’Uomo bianco ha dedicato un recente volume. Ma «nel momento in cui accettiamo di fissare fisicament­e questa differenza (…) noi non ci accorgiamo che simmetrica­mente questa operazione sta agendo anche su di noi». Il muro della paura, continua Mauro, tiene certamente fuori i corpi altrui, ma recinta anche i nostri riducendo la nostra identità a quella fisica del ‘bianco indigeno’, ciò che siamo ma non ci esaurisce, avendo rivestito quel corpo di sovrastrut­ture sociali, culturali, politiche che ci hanno reso molto di più, una figura in movimento, complessa. Come non sentire, allora, nelle miserevoli parole della Pantani, l’eco lontana e contrastiv­a di quelle dello scrittore afroameric­ano James Baldwin: “Per prima cosa i bianchi devono comprender­e, in cuor loro, il motivo che li spinge ad avere bisogno del negro, perché io non sono un negro. Sono un uomo, ma se voi mi vedete come un negro, vuol dire che voi avete bisogno di vedermi così. Sono i bianchi ad aver inventato il negro, e siete voi bianchi, a doverne capire il motivo. E il futuro del paese dipende da questo, dalla capacità o dall’incapacità di rispondere a questo interrogat­ivo”.

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