Scuola che verrà, da dove ripartire
Penso che raramente in Ticino ci sia stato un momento potenzialmente più adatto per tentare (…)
Segue dalla Prima (...) un vero dialogo in profondità e a 360 gradi sulla nostra scuola, ossia con la partecipazione di tutte le componenti della scuola stessa e con il contributo non solo delle forze politiche ma prima ancora di tutte le realtà culturali e sociali che abbiano idee e proposte per il futuro dell’educazione scolastica nel nostro Paese. Alludo alla fase di inevitabile stasi politica e di opportuna riflessione che si è aperta dopo la bocciatura del progetto “La scuola che verrà”, nella speranza che lo spazio non venga immediatamente saturato da schermaglie di corto respiro tra chi, su un fronte o sull’altro dei partitanti, “sa già tutto”. In questo senso dovrebbero realizzarsi tre premesse che elenco. La prima è che appunto tutti gli interessati rinuncino ad approfittare del momento di transizione per marcare punti, nell’ottica dell’“adesso mettiamo in difficoltà XY”, o “è il momento di farsi notare”, o ancora “avanti a testa bassa, aggirando tatticamente l’ostacolo”. Per la seconda premessa mi metto direttamente in gioco rivolgendomi a chi mi è più vicino per cultura e storia, ovvero il mondo cattolico (e per estensione tutto il settore delle scuole non statali): occorre secondo me spazzare il campo dall’inossidabile (e comodissimo, per tapparsi le orecchie) pregiudizio secondo il quale le scuole private avrebbero un solo obiettivo nella loro agenda: ottenere soldi dallo Stato. Sarebbe opportuno che dicessero alto e chiaro “ci asteniamo da qualsiasi rivendicazione, non perché non ci siano le premesse per avanzarne o perché le nostre scuole nuotino nell’oro, ma perché in questo momento ci interessa di più partecipare, umilmente e costruttivamente, a un dialogo aperto per il bene di tutta la scuola pubblica, in particolare di quella statale, che oggi educa il 95% dei futuri cittadini ticinesi”. Terza premessa: Bertoli e il suo staff dovrebbero uscire per qualche tempo dalla fase del puro contrattacco e accettare di mettersi in gioco. “Non l’abbiamo forse fatto in occasione del dibattito parlamentare e durante la feroce campagna che ha preceduto il voto del 23 settembre?”, sentiamo già protestare il capo del Decs. Appunto, a me non pare che nelle poche settimane a disposizione tra il deposito del referendum e il voto ci sia stata la possibilità di un approfondito dibattito: comprensibilmente da una parte e dall’altra si è puntato sugli slogan, non privi di fondamento ma tesi a forzare il voto popolare. E prima? Qui c’è un punto cruciale. “La scuola che verrà” era in un certo senso l’ultimo chilometro di un lungo percorso da tempo concepito dal Decs e implementato attraverso i tanto citati “Piani di studio”. Tanto citati quanto poco conosciuti in realtà, salvo che da una ristretta cerchia di addetti ai lavori, e mai veramente discussi al di fuori delle stanze del Decs. Precisiamo. Non si sta dicendo che “La scuola che verrà” o i mitici Piani di studio che la supportano siano da archiviare nei solai del dipartimento. Contengono elementi preziosi e sono dettati da una sensibilità che chi scrive in buona parte condivide. Come nel caso, per citare un solo esempio ma di grande portata, dell’estrema attenzione riservata al singolo allievo, specie se in affanno, onde mantenergli aperti il maggior numero di percorsi possibili, senza operare selezioni troppo precoci, come a mio parere avviene in molti sistemi scolastici di Cantoni svizzerotedeschi. Il punto debole del progetto bocciato in votazione (e delle sue recondite fondamenta) sta piuttosto nel porre l’accento in modo unilaterale su esigenze giuste e condivisibili, lasciandone del tutto in ombra altre. L’impianto pedagogico/didattico della scuola pensata e decisa dai (più che rispettabili) cervelli del Decs dà per scontate delle opzioni che andrebbero invece discusse e approfondite. Una di queste, decisiva, riguarda l’accento prevalente messo sulle cosiddette “competenze” dell’allievo, senza mantenere la giusta tensione polare con l’altro fattore essenziale, quello delle conoscenze, sbrigati- vamente ridotte a residuo di modelli pedagogico didattici “sorpassati” e “repressivi”. Ne siamo proprio sicuri? E ancora, siamo sicuri che sia buona cosa emarginare quasi completamente la famiglia dal percorso scolastico dei figli in questa loro delicatissima età? A questo proposito, sia detto di passata, stupisce che un “partito della famiglia”, se ce n’è ancora almeno uno, non sia da tempo sceso in campo a sindacare il ruolo a mio parere insostituibile dei genitori. Si può provare, nei prossimi mesi (senza “turbare” i giusti e importanti riti elettorali), a mettere questi temi al centro dell’agorà ticinese, prima culturale che politica? In questa prospettiva anche le esperienze maturate negli ultimi decenni dalle scuole non statali (e spesso riconosciute come interessanti dagli stessi direttori del Decs, Bertoli compreso) potrebbero dare un contributo utile. A beneficio, ripetiamo, di tutti, non pro domo loro.