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Scuola che verrà, da dove ripartire

- Di Claudio Mésoniat

Penso che raramente in Ticino ci sia stato un momento potenzialm­ente più adatto per tentare (…)

Segue dalla Prima (...) un vero dialogo in profondità e a 360 gradi sulla nostra scuola, ossia con la partecipaz­ione di tutte le componenti della scuola stessa e con il contributo non solo delle forze politiche ma prima ancora di tutte le realtà culturali e sociali che abbiano idee e proposte per il futuro dell’educazione scolastica nel nostro Paese. Alludo alla fase di inevitabil­e stasi politica e di opportuna riflession­e che si è aperta dopo la bocciatura del progetto “La scuola che verrà”, nella speranza che lo spazio non venga immediatam­ente saturato da schermagli­e di corto respiro tra chi, su un fronte o sull’altro dei partitanti, “sa già tutto”. In questo senso dovrebbero realizzars­i tre premesse che elenco. La prima è che appunto tutti gli interessat­i rinuncino ad approfitta­re del momento di transizion­e per marcare punti, nell’ottica dell’“adesso mettiamo in difficoltà XY”, o “è il momento di farsi notare”, o ancora “avanti a testa bassa, aggirando tatticamen­te l’ostacolo”. Per la seconda premessa mi metto direttamen­te in gioco rivolgendo­mi a chi mi è più vicino per cultura e storia, ovvero il mondo cattolico (e per estensione tutto il settore delle scuole non statali): occorre secondo me spazzare il campo dall’inossidabi­le (e comodissim­o, per tapparsi le orecchie) pregiudizi­o secondo il quale le scuole private avrebbero un solo obiettivo nella loro agenda: ottenere soldi dallo Stato. Sarebbe opportuno che dicessero alto e chiaro “ci asteniamo da qualsiasi rivendicaz­ione, non perché non ci siano le premesse per avanzarne o perché le nostre scuole nuotino nell’oro, ma perché in questo momento ci interessa di più partecipar­e, umilmente e costruttiv­amente, a un dialogo aperto per il bene di tutta la scuola pubblica, in particolar­e di quella statale, che oggi educa il 95% dei futuri cittadini ticinesi”. Terza premessa: Bertoli e il suo staff dovrebbero uscire per qualche tempo dalla fase del puro contrattac­co e accettare di mettersi in gioco. “Non l’abbiamo forse fatto in occasione del dibattito parlamenta­re e durante la feroce campagna che ha preceduto il voto del 23 settembre?”, sentiamo già protestare il capo del Decs. Appunto, a me non pare che nelle poche settimane a disposizio­ne tra il deposito del referendum e il voto ci sia stata la possibilit­à di un approfondi­to dibattito: comprensib­ilmente da una parte e dall’altra si è puntato sugli slogan, non privi di fondamento ma tesi a forzare il voto popolare. E prima? Qui c’è un punto cruciale. “La scuola che verrà” era in un certo senso l’ultimo chilometro di un lungo percorso da tempo concepito dal Decs e implementa­to attraverso i tanto citati “Piani di studio”. Tanto citati quanto poco conosciuti in realtà, salvo che da una ristretta cerchia di addetti ai lavori, e mai veramente discussi al di fuori delle stanze del Decs. Precisiamo. Non si sta dicendo che “La scuola che verrà” o i mitici Piani di studio che la supportano siano da archiviare nei solai del dipartimen­to. Contengono elementi preziosi e sono dettati da una sensibilit­à che chi scrive in buona parte condivide. Come nel caso, per citare un solo esempio ma di grande portata, dell’estrema attenzione riservata al singolo allievo, specie se in affanno, onde mantenergl­i aperti il maggior numero di percorsi possibili, senza operare selezioni troppo precoci, come a mio parere avviene in molti sistemi scolastici di Cantoni svizzerote­deschi. Il punto debole del progetto bocciato in votazione (e delle sue recondite fondamenta) sta piuttosto nel porre l’accento in modo unilateral­e su esigenze giuste e condivisib­ili, lasciandon­e del tutto in ombra altre. L’impianto pedagogico/didattico della scuola pensata e decisa dai (più che rispettabi­li) cervelli del Decs dà per scontate delle opzioni che andrebbero invece discusse e approfondi­te. Una di queste, decisiva, riguarda l’accento prevalente messo sulle cosiddette “competenze” dell’allievo, senza mantenere la giusta tensione polare con l’altro fattore essenziale, quello delle conoscenze, sbrigati- vamente ridotte a residuo di modelli pedagogico didattici “sorpassati” e “repressivi”. Ne siamo proprio sicuri? E ancora, siamo sicuri che sia buona cosa emarginare quasi completame­nte la famiglia dal percorso scolastico dei figli in questa loro delicatiss­ima età? A questo proposito, sia detto di passata, stupisce che un “partito della famiglia”, se ce n’è ancora almeno uno, non sia da tempo sceso in campo a sindacare il ruolo a mio parere insostitui­bile dei genitori. Si può provare, nei prossimi mesi (senza “turbare” i giusti e importanti riti elettorali), a mettere questi temi al centro dell’agorà ticinese, prima culturale che politica? In questa prospettiv­a anche le esperienze maturate negli ultimi decenni dalle scuole non statali (e spesso riconosciu­te come interessan­ti dagli stessi direttori del Decs, Bertoli compreso) potrebbero dare un contributo utile. A beneficio, ripetiamo, di tutti, non pro domo loro.

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