Fiducia in un mondo segreto
L’intervista / Scrittore, regista, giornalista, Pierre Lepori e i suoi tre nuovi libri
Un romanzo, una raccolta di poesie e un progetto ‘un po’ fuori di testa’. Perché ‘non basta vivere, occorre raccontarsi, al limite sapersi inventare, magari mentendo a sé stessi e agli altri’...
Sta vivendo un autunno particolarmente denso di avvenimenti Pierre Lepori, autore ticinese da tempo trapiantato in Romandia, che nelle settimane appena passate ha visto uscire non una, ma addirittura tre sue nuove opere: il romanzo ‘Nuit américaine’ (Losanna, Editions d’en bas, presto disponibile anche in italiano pubblicato da Effigie Edizioni), la raccolta di poesie ‘Quasi amore’ e il libro-cd ‘Klaus Nomi’. Laureato in lettere a Siena, Pierre Lepori da 20 anni lavora come corrispondente culturale per la radio svizzera ed è traduttore e autore di romanzi, saggi e poesie. Lo abbiamo incontrato a Zurigo nell’ambito della kermesse letteraria “Zürich liest”, nella libreria Zum Mittelmeer und mehr, dove ha letto varie poesie e alcuni estratti dal romanzo contenuti nell’ultimo numero di Viceversa, la rivista di letteratura svizzera trilingue. Quest’anno il tema conduttore è la vergogna, un sentimento che Lepori ha più volte espresso nelle sue opere, per esempio con temi tabù e legati alla sessualità.
Lei scrive in francese e in italiano. Quale delle due lingue è la principale? Ci può parlare delle sue esperienze con il bilinguismo?
La mia lingua prima è senz’ombra di dubbio l’italiano, anche se in francese mi capita di redigere testi saggistici, giornalistici e a volte anche letterari. È una questione di distanza: per scrivere bisogna vivere, certo, ma anche filtrare attraverso un mondo segreto e immaginario le voci, i volti, le emozioni che ci attraversano. E poi trovare un linguaggio che dia loro forma, sulla pagina. Può succedere così che la propria lingua madre si trasformi anche in un freno. Allora io finisco per scrivere anche in francese, dove sono più libero dai tabù di una tradizione letteraria ereditata e pesante (anche se si tratta di una lingua decisamente più normativa dell’italiano). Il nuovo ro-
manzo, ‘Nuit américaine’, è stato scritto in italiano con il titolo ‘Effetto notte’; ma il processo di traduzione-adattamento verso il francese, credo, lo ha arricchito, reso più traballante stilisticamente. È questo che mi interessa: trovare una lingua non per forza di cose bella, ma dubbiosa, pencolante e, perché no, balbuziente. Come le voci degli ascoltatori radiofonici che invadono il racconto, come una sinfonia di emozioni ammaccate, che mi sembrano più “vere” perché più instabili, esitanti.
Il linguaggio usato in ‘Nuit américaine’ è ricco di immagini che ben descrivono gli stati d’animo del protagonista, Alex, che vive in una specie di purgatorio radiofonico: punito per un peccato commesso, lavora di notte ascoltando gli sfoghi degli ascoltatori. Il viaggio forzato di Alex in terra americana è descritto in modo quasi claustrofobico e consente di catturare solo immagini parziali della città visitata. Per quale motivo questa scelta?
Sì, c’è una scelta stilistica precisa: sebbene il romanzo sia narrato al passato remoto e alla terza persona singolare, il punto di vista è sempre quello di Alex. Era importante per me far percepire la sua condizione di esule, geografico e umano; il lettore segue la sua deriva, lo accompagna in un mondo di sensazioni precarie, fatte di brandelli di paesaggio o di sogno. Le descrizioni “lacunose” permettono al lettore di costruirsi una propria immagine della città (in realtà molto ancorata al luogo in cui ho scritto il romanzo, Montréal). È importante che ci sia spazio per il lettore, che non tutto sia detto. A fare da contraltare, ci sono le voci della notte, le confessioni radiofoniche che rappresentano uno specchio deformante della vita del personaggio e di ognuno di noi. A un certo punto questi due registri si raggiungono, scopriamo che anche Alex avrebbe qualcosa da raccontare. E il romanzo difende quest’idea fondamentale: non basta vivere, occorre raccontarsi, al limite sapersi inventare, magari mentendo a sé stessi e agli altri. La narrazione è un atto di fiducia non solo nel linguaggio, ma anche nella possibilità d’inventarsi e riscrivere il proprio destino.
Ogni intervento degli ascoltatori è abbinato a una canzone. Il libro si trasforma così in uno strumento multimediale, che permette molteplici letture. Lo stesso accade con ‘Klaus Nomi Projekt’ (Losanna, Edizioni HumuS). Che rapporto esiste tra le due opere?
Sono progetti molto diversi, che utilizzano linguaggi ben distinti. Il libro-cd relativo a Klaus Nomi è nato per il teatro, con una lingua barocca, eccessiva ed erotica che vuole rendere omaggio a questo grande cantante new-wave, morto di Aids nel 1983. L’ho prodotto con la mia compagnia teatrale (TT3) ed è stata essenziale la collaborazione del fisarmonicista Marc Berman, dell’attore Cédric Leproust, con cui è stato favoloso collaborare e della disegnatrice ginevrina Albertine Zullo. Ne è venuto fuori un concept-book abbastanza fuori di testa, che ora vorremmo far viaggiare nei teatri e nei festival. Siamo ben lontani, ovviamente, dalle atmosfere soffuse, glutinose, di ‘Effetto notte’.
La raccolta ‘Quasi amore’ (Bellinzona, Sottoscala) è composta da 45 poesie: fra queste 38 scritte in prima persona, 28 in cui l’io narrante si rivolge anche direttamente al ‘suo amore.’ È questo per lei l’amore, un momento intimo di scambio, di dialogo? Una narrazione fra due persone?
Se lo sapessi, non avrei avuto bisogno di scrivere un libro... Queste poesie sono un’esplorazione molto personale, a volte erotica, di un sentimento profondo ma inspiegabile, indicibile. Trattano l’amore cercando di penetrare il mistero di questo sentimento strano, che si nutre d’immaginazione, ricordi, proiezioni. L’altro è presente – in effetti ci sono poesie rivolte a un “tu” – ma non sempre tangibile. La poesia è per me un modo di sfiorare, intuire, interrogare. Ho l’impressione, per citare il grande Robert Walser, di aver “vissuto così tanto ma aver così poco da dire”. E allora ci provo in poesia, in teatro, nel romanzo. In fondo, la letteratura non è che un tentativo.