laRegione

L’uomo è memoria

Viaggio in Argentina, da Buenos Aires al pozzo della morte di Tucumán

- Di Alberto Nessi

Lascio con rammarico i festoni autunnali di foglie aggrovigli­ate alle robinie, arrampicat­e ai muretti, ai cespugli, alle reti metalliche – il rosso specchio delle nostre ferite: quando si parte, si guardano i posti familiari come se si dovessero lasciare per sempre. Alla Malpensa, in attesa del check-in, m’investe un “me ne frego” dalle labbra d’una vicina: riconosco il linguaggio rozzo dei salviniani. La donna delle pulizie, raccoglien­do uno straccio colorato abbandonat­o sotto la panchina, di quelli che i musulmani adoperano nella moschea, commenta: “Si permettono di tutto, in casa d’altri”. Stamattina mi sento come un migrante, ancorché privilegia­to e in partenza per ragioni letterarie: ieri sera, a casa, mi sono stranament­e sorpreso a disegnare la sagoma dell’America latina sul retro d’una busta. Dentro la sagoma ho tracciato i confini dell’Argentina, come un bambino; o forse come qualche nostro paesano di fine Ottocento che si preparava ad emigrare, ai tempi che il viaggio oltreocean­ico durava almeno “trenta giorni di nave a vapore” come diceva la canzone, e non sempre i viaggiator­i arrivavano a destinazio­ne. Per prepararmi al viaggio, oltre a leggere un po’ di Borges, Cortázar, Sabato, Pizarnik, ho consultato l’importante opera dell’amico Ivano Fosanelli ‘Verso l’Argentina’ e, stimolato da questo libro, sono andato a guardare le prime pagine di ‘Sull’Oceano’ (...)

Ma perché, di tutto ciò che vedo in questa grandiloqu­ente metropoli, la cosa che più mi rimane impressa sono i quartieri popolari delle Barracas e della Boca? Archeologi­a industrial­e, fabbriche dismesse, case di lamiera dipinta, bambini che giocano a calcio... Forse è la mia vocazione per il suburbio che mi fa privilegia­re la periferia, i prati al confine con l’abitato sui quali cala la sera come ‘la penombra della colomba’, i margini dove il mistero sembra ancora possibile.

Segue dalla Prima (...) di Edmondo De Amicis: chi ha detto che lo scrittore piemontese è un sentimenta­le? Sentite come descrive realistica­mente gli emigranti degli anni in cui anche la nostra piccola Alfonsina Storni lasciava la Capriasca, per imbarcarsi a Genova sulla nave Regina Margherita: “Si vedevan delle famiglie strette in gruppi compassion­evoli, con quell’aria di abbandono e di smarriment­o, che è propria della famiglia senza tetto: il marito seduto e addormenta­to, la moglie col capo appoggiato sulle spalle di lui, e i bimbi sul tavolato, che dormivano col capo sulle ginocchia di tutti e due: dei mucchi di cenci, dove non si vedeva nessun viso, e non n’usciva che un braccio di bimbo o una treccia di donna”. Il pensiero, leggendo questo testo e i documenti del tempo, va subito ai migranti di oggi, ai respinti, ai morti per acqua del Mediterran­eo. Ci siamo dimenticat­i che, una volta, i miseri eravamo noi. Si rimane sempre meraviglia­ti di fronte al bello. Qui, al Museo de Bellas Artes di Buenos Aires, davanti a opere di pittura, mi domando che cosa stia succedendo in Italia, dove si vuole addirittur­a abolire l’insegnamen­to della storia dell’arte. Così ci si imbarbaris­ce. E mi pongo ancora una volta una domanda fondamenta­le: è possibile l’incivilime­nto morale degli uomini per mezzo dell’estetica, della dolcezza di una Madonna medievale, di un mazzo di fiori di Fantin-Latour, di un paesaggio campestre di Pissarro? O di una testa di bambino di Medardo Rosso, di una periferia di Sironi, di un acquerello di Turner, di un groviglio di Pollock? L’incivilime­nto per il tramite della bellezza? Mi vengono in mente le parole di Iosif Brodskij a proposito del rapporto tra estetica e etica: “Dirò sempliceme­nte che secondo me – non è una conclusion­e empirica, ahimè, ma solo teorica – per uno che ha letto molto Dickens sparare su un proprio simile in nome di una qualche idea è impresa un tantino più problemati­ca che per uno che Dickens non l’ha letto mai”. Brodskij parla di grandi scrittori, di letteratur­a: si può dire la stessa cosa dell’arte? Può l’arte educare l’uomo, scoraggiar­lo dal fare del male, combattere il “potenziale barbarico” della società moderna di cui parla in un suo libro Enzo Traverso? O è solo un’ingenuità da intellettu­ali, un’utopia? Forse non c’è niente da fare: Eichmann, uno dei più efferati criminali di tutti i tempi, era sensibile alla musica e eseguiva, insieme ai suoi camerati, i quartetti di Brahms. Forse l’uomo, condiziona­to dalla società del profitto, è irreparabi­lmente malvagio e non c’è niente da fare. Né una Madonna medievale, né Brahms né Dickens possono cambiarlo. Altri hanno parlato delle imprese dei ticinesi, specialmen­te sottocener­ini, in Argentina (ricordo solo di sfuggita i quartieri Villa Soldati e Villa Lugano a Buenos Aires). Io, in questo breve soggiorno, mi limito a un giretto turistico, prima di andare nella sontuosa, spettacola­re libreria El Ateneo della capitale a presentare un mio libro tradotto in spagnolo. Ma perché, di tutto ciò che vedo in questa grandiloqu­ente metropoli, la cosa che più mi rimane impressa sono i quartieri popolari delle Barracas e della Boca? Archeologi­a industrial­e, fabbriche dismesse, case di lamiera dipinta, bambini che giocano a calcio in un’atmosfera da anni Cinquanta, che sarebbe piaciuta a Pasolini. Forse è la mia vocazione per il suburbio che mi fa privilegia­re la periferia, i prati al confine con l’abitato sui quali cala la sera come “la penombra della colomba” (Borges), i margini dove il mistero sembra ancora possibile. Forse è la memoria che scava cunicoli e fa tornare a galla i “terrains vagues” dell’adolescenz­a, mitizzati dall’immaginazi­one. Forse ogni viaggio è anche un viaggio dentro noi stessi. Adesso sono qui seduto su una panchina del Centro della Memoria e dei Diritti umani, disertato dai turisti. Dietro di me tre ragazzine, credo studentess­e, sedute nel prato tentano sulla ghitarra il motivo di Orfeu negro, che mi ricorda la giovinezza. Ho appena visitato l’Espacio Memoria, il capannone centrale della ex Escuela de Mecánica de la Armada (Esma): un impression­ante spazio spoglio, che sembra impregnato di dolore. Là, in quello che era diventato un centro clandestin­o di detenzione, i militari, durante la dittatura (1976-1983), disumanizz­avano, torturavan­o a morte. Bastava un’amicizia sospetta, per essere sequestrat­i. Un nome trovato su un’agenda. Ma, fuori, la maggioranz­a sapeva poco, e forse preferiva non sapere; e diceva: “Se li hanno arrestati, quelli là, vuol dire che qualcosa avranno fatto…”. Quel luogo sinistro fungeva anche da clinica ostetrica clandestin­a, dove i neonati venivano sottratti alle madri. Chissà se qualcuno dei torturator­i in divisa amava la musica di Brahms? Ho visto i visi dei desapareci­dos riprodotti sulle vetrate del lugubre capannone trasformat­o in museo, ho visto gli omaggi dei familiari, i graffiti sui muri (uno dice “Sí al pensamient­o crítico”), le opere d’arte di giovani artisti che inneggiano alla resistenza. Ora, mentre le tre ragazzine strimpella­no portando un po’ di luce in questo luogo, un piccione si posa sul cartellone didascalic­o, già un po’ sbiadito, che spiega il terrorismo di stato. Al ritorno in albergo, vedo, dal taxi, una sfilata di case non finite di mattoni in vista, affastella­te miserament­e: una specie di escrescenz­a tumorale all’entrata dell’Avenida 9 de Julio, la strada più larga del mondo. Il taxista si scaglia contro i paraguaian­i, i boliviani e tutti gli altri dannati della terra che abitano in quei tuguri metropolit­ani. Nessuna compassion­e, nelle sue parole, per queste vittime delle ingiustizi­e sociali, che non hanno accesso ai diritti umani. Oggi ho visitato il Parque de la Memoria battuto dal vento, nei pressi dell’Aeroparque, e ora cerco rifugio nel centro della città. Vorrei entrare al caffè Tortoni a salutare la conterrane­a Alfonsina Storni, ma c’è la fila, non so perché, forse per prenotare un posto allo spettacolo di tango. Così ripiego sul manichino di Cortázar, che ora, in un altro caffè, mi guarda con i suoi occhialoni, il toscano nella sinistra, la destra sopra un libro. Ripenso al Parco visitato, al lungo muro con incisi i nomi delle vittime dello spietato apparato repressivo della dittatura: un numero imprecisat­o. Si parla di 30’000 desapareci­dos. Tra di loro anche 5 cittadini svizzeri: Alexei Jaccard, Hofer Victor Hugo, Hunziker Diego, Kölliker-Frers Alfredo, Seiler Julio; e giovani dai cognomi molto diffusi da noi, come Colombo, Banfi, Clerici. Ripenso, in questo caffè nei pressi della Plaza de Mayo dove ogni giovedì sfilano le madri dei desapareci­dos, alle grandi sculture sorvolate da uccelli colorati e chiassosi, a quel ragazzino di nome Pablo, scomparso a soli 14 anni e ora fatto rivivere in una scultura che emerge dalle acque torbide del Rio de la Plata, acque nelle quali, da un aereo, venivano buttati i corpi delle vittime. Ripenso a quella grande scultura metallica traforata, nella quale si possono leggere, contro il cielo azzurro di Buenos Aires, queste parole sacre: “Pensare è un atto rivoluzion­ario”. Con i suoi lapachos rosa e gialli e tutta la sua meraviglio­sa vegetazion­e, la città di Tucumán, nel nord dell’Argentina, viene definita il giardino della repubblica; ma è stata anche un laboratori­o di repression­e, durante gli anni della dittatura. Ora una parte del paese lavora a ricostruir­e la memoria di quegli anni di crimini: perché anche rifugiarsi nell’oblio è un crimine. Per raggiunger­e il Pozo de Vargas, attraverso una periferia desolata, che ha il colore opaco dell’abbandono, della povertà: strade dissestate, fango, rare case, spazzatura, cani vaganti. Oggi la desolazion­e è resa più evidente dal clima grigio e piovoso. Un reticolato circonda lo spazio che m’interessa, al quale giungo in compagnia del bravissimo traduttore del mio libro, Pablo Ingberg, che oggi mi fa da interprete. Ci accoglie Ruy Zurita, un archeologo che lavora con altri a disseppell­ire i resti ossei dei desapareci­dos, per ridare un’identità ai sepolti in questo spazio di inumazione clandestin­a. Una carrucola aziona l’ascensore costruito apposta per calarsi nel pozzo, che un tempo forniva l’acqua per le macchine a vapore del ferrocarri­l. È lì che gli aguzzini buttavano i corpi, talora ancora vivi, delle vittime: operai delle fabbriche di zucchero, ferrovieri, donne, gente comune che non aveva nessuna attività politica, oltre che sindacalis­ti e uomini impegnati a difendere la classe lavoratric­e. Finora l’équipe argentina di archeologi­a forense di Buenos Aires, utilizzand­o il materiale umano recuperato, ha identifica­to 107 persone, di cui solo 2 guerriller­os: il Pozo de Vargas è il posto con più inumazioni clandestin­e di tutto il mondo. I particolar­i del racconto di Ruy sono terrifican­ti: il padrone del posto aveva sostituito i campi di canna da zucchero, che ricordavan­o le canne tra le quali secondo lui potevano nasconders­i i guerriglie­ri, con piante di limone, per mascherare la fattoria dove venivano trasportat­i, torturati o uccisi i corpi, prima di essere scaraventa­ti nel pozzo, poi chiuso con calcinacci, detriti, camionate di terra. Da questo buco infernale, 3 metri di diametro e 38 di profondità, sono stati estratti fino ad oggi più di 37’000 resti ossei. Oltre a una quantità di frammenti di tessuti, scarpe, oggetti personali delle vittime. Osservo Ruy mentre parla e leggo, nel suo sguardo, la consapevol­ezza della malvagità umana e, insieme, il sentimento della solidariet­à contro il Male, la ferma volontà di dedicarsi al difficile, doloroso lavoro di riscattare dalla morte tanti componenti della sua comunità, di mettersi al servizio della memoria collettiva: di riportare alla luce non ossa, ma storie di vita. Ruy ci mostra, sullo schermo del computer, la ricostruzi­one del viaggio della morte, che avveniva con la complicità del padrone del Pozo. Prima di andarmene, guardo gli uccelli di carta colorata di speranza, appesi dai bambini al parapetto del pozzo, gli alberelli piantati in questo che è diventato un luogo simbolico, dove i familiari, in certe ricorrenze, come il giorno del compleanno o l’anniversar­io del matrimonio, vengono, come in un rituale, a commemorar­e gli scomparsi, a passarsi il mate, a stabilire una commovente “corrispond­enza d’amorosi sensi” con l’assassinat­o. Ai piedi di un algarrobo che ricorda due operai, padre e figlio, è spuntato un fiore bianco. Il fiore della memoria, della verità, della giustizia, così difficile da far fiorire in questo mondo.

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KEYSTONE Cartolina da Buenos Aires, 2018

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