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Senza mezzi termini

- Di Erminio Ferrari

Mai come quest’anno le elezioni di midterm negli Stati Uniti costituisc­ono un pronunciam­ento sul presidente in carica. La figura divisiva di Donald Trump ha catalizzat­o l’attenzione e concorso a radicalizz­are il confronto. A colloquio con Fabrizio Maronta, responsabi­le relazioni internazio­nali di Limes e curatore di Heartland, Eurasian Review of Geopolitic­s.

Non è la prima volta che le midterm vengono intese come un pronunciam­ento sul presidente in carica, ma quest’anno, così pare, lo sono in modo particolar­e. L’imporsi della figura di Trump è davvero alla prima verifica democratic­a?

In realtà, le elezioni di metà mandato furono volute per consentire agli elettori di esprimersi anche sulla politica del presidente, attraverso il rinnovo quasi totale dei due rami del legislativ­o. Nel sistema americano dei pesi e contrappes­i, queste elezioni offrono, da un lato, la possibilit­à di mandare un segnale estremamen­te forte al presidente senza pregiudica­rne le funzioni; dall’altro, possono incidere sulla sua politica: negando la maggioranz­a al partito che ha espresso il presidente, o confermand­ogliela. Possono cioè essere un correttivo o una conferma.

Dunque credo che sia sbagliato vedere in queste elezioni quasi esclusivam­ente un giudizio sulla presidenza Trump, pur riconoscen­do la natura contrastat­a di questa presidenza e il livello di divisone dell’opinione pubblica, di cui Trump è sintomo e insieme causa. Bisogna infatti considerar­e che una serie di politiche del presidente non sono affatto sgradite a parti della base democratic­a. Si pensi alla politica commercial­e e a come Trump ha condotto la rinegoziaz­ione del Nafta. Il nuovo trattato, pur in una ottica protezioni­stica, va incontro a richieste del sindacato, ad esempio sull’adeguament­o degli standard salariali e ambientali nei Paesi concorrent­i come il Messico, che costituiva­no di fatto dumping – cioè concorrenz­a sleale – nei confronti della manodopera statuniten­se.

Lo stesso isolazioni­smo, inteso come ritiro da alleanze anche consolidat­e e come rinuncia ad assumere la responsabi­lità nella soluzione di problemi sovranazio­nali, non piace ideologica­mente alla base democratic­a, ma intercetta una generale stanchezza della classe media che accusa il “ruolo imperiale” del Paese. Ancora, il via libera all’industria degli idrocarbur­i è ovviamente malvisto dai settori dell’opinione pubblica – generalmen­te più benestante, come quella california­na – sensibili ai temi ambientali, ma genera consenso nelle aree meno prospere in cui produce occupazion­e.

Perché allora si parla di polarizzaz­ione dalla società statuniten­se sotto Trump? L’aspetto più dirimente è il profilo morale e ideologico di Trump, prima che quello politico: la misoginia, la tendenza a mentire, la tracotanza e lo sprezzo della dialettica istituzion­ale e sociale.

Sulle sue politiche, il giudizio e il consenso sono più sfumati.

La frattura enfatizzat­a dall’avvento di Trump è soprattutt­o quella del reddito: i cosiddetti perdenti della globalizza­zione – specie i bianchi, che alle difficoltà economiche sommano la sindrome da sopraffazi­one da parte delle minoranze – vi hanno individuat­o un alfiere, in un contesto che vede il partito democratic­o in una situazione di afasia. Trump non fa breccia tra i democratic­i benestanti, bianchi e non, e questo è parte del problema dei democratic­i: l’essere diventati, o l’essere interpreta­ti, come il partito di chi sta bene e può permetters­i un liberalism­o inteso da molti come insopporta­bile paternalis­mo.

Appunto: i democratic­i. Sono usciti ‘suonati’ dalla sconfitta di Hillary Clinton, e appaiono ancora incapaci di scegliere tra una leadership (che spesso va tradotta in ‘candidati’) di ‘sinistra’ e una ‘di sistema.’ Quanto sarà determinan­te questa impasse? Se sarà determinan­te non lo so. Ma certamente è un elemento estremamen­te rilevante. Vi sono diverse analogie con alcune situazioni europee: il fatto che anche a causa dell’ubriacatur­a ideologica seguita alla fine dell’Unione Sovietica le sinistre abbiano fatto proprio il modello neoliberis­ta che origina da Thatcher e Reagan, e attraversa tutti gli anni Novanta con Clinton e Blair. La famosa “terza via” altro non era che la presa d’atto dell’inevitabil­ità del liberismo, cioè del capitalism­o nella versione più pura, sregolata, cui la democrazia doveva in qualche modo conformars­i. Era la consacrazi­one culturale, oltre che politica, della globalizza­zione di stampo anglosasso­ne – meglio, statuniten­se – che si rinunciava a governare perché inutile, oltre che forse impossibil­e. L’eutanasia delle sinistre, in tutte le loro declinazio­ni, credo sia iniziata allora. La sinistra americana e quelle europee, disfattesi dell’armamentar­io ideologico e teorico marxista, si sono sottratte allo sforzo di comprensio­ne del mutamento in corso. Finendone travolte. Il campo liberale paga dunque lo scotto di non aver voluto e saputo farsi carico delle istanze di settori della società meno beneficiat­i (se non danneggiat­i) dai mutamenti socioecono­mici degli ultimi trent’anni, i quali ora cercano un rifugio nel manicheism­o dei cosiddetti “populismi”. A proposito del populismo, credo che la definizion­e più ficcante l’abbia data lo storico Francis Fukuyama, descrivend­olo (vado a memoria) come “l’etichetta che le élite affibbiano alla democrazia quando mostra il suo volto meno piacevole”.

Quanto i temi e i politici locali potranno imporsi sul discorso cresciuto attorno a una figura dominante come Trump?

In queste elezioni conta molto la personalit­à di candidati ai seggi parlamenta­ri, considerat­o anche che si vota in collegi uninominal­i. C’è però un altro elemento, di natura più tecnica ma dai considerev­oli risvolti politici, che ha un’influenza notevole: si tratta del cosiddetto gerrymande­ring, ovvero la pratica di ridisegnar­e i confini dei collegi elettorali per far sì che essi comprendan­o elettori affini al partito di maggioranz­a. Una pratica che favorisce la radicalizz­azione del voto, perché omogeneizz­a i collegi e spinge i candidati sfavoriti ad abbracciar­e posizioni radicali per conquistar­e la base del partito avversario.

La polarizzaz­ione dell’opinione non dipende solo da questo meccanismo, ma ne è fortemente condiziona­ta: si pensi al fenomeno del Tea Party, l’ala oltranzist­a del partito repubblica­no approdata in massa al Congresso con Bush junior.

Il tentativo di rimozione di Trump per via giudiziari­a, ammesso che giunga a un esito, non sottovalut­a il radicament­o del suo modello o quantomeno del suo discorso in larga parte della popolazion­e?

È un discorso che si presta a due tipi di lettura. Una prettament­e politica, avrebbe come risposta un sì. La “scorciatoi­a giudiziari­a”, se vogliamo chiamarla così, è infatti un ottimo alibi per evitare una dolorosa analisi delle condizioni che hanno permesso l’affermazio­ne di Trump. Una forma di rimozione, che immagino tenti molti politici.

Una lettura più istituzion­ale, complessiv­a, rinvia invece alla politica e alla costituzio­ne – formale e materiale – del Paese, al tipo di meccanismo che la Costituzio­ne prevede per salvaguard­are il sistema dalle proprie derive.

Di fronte a fenomeni che ‘non sentono ragione’ cosa bisogna fare? Nel caso di Trump, poi, che non ha nemmeno vinto il voto popolare?

Un impeachmen­t rimuovereb­be per via giudiziari­a il sintomo di un fenomeno sottostant­e, cioè quella deriva partigiana e massimalis­ta della democrazia statuniten­se che, di per sé, rappresent­a un pericolo per il sistema. È il dilemma del nostro tempo per le democrazie costituzio­nali: lo Stato di diritto prevede che le persone che incarnano le istituzion­i vi siano fedeli. Il sistema è perciò titolato a usare gli anticorpi di cui è dotato per correggere ciò che percepisce come anomalia o pericolo. Se dunque in senso strettamen­te politico un impeachmen­t è una forma impropria di rimozione, la risposta istituzion­ale deve essere più articolata, poiché chiama in causa il sistema democratic­o stesso. Le democrazie sono sistemi rappresent­ativi alimentati dalle elezioni, che affidano a organi istituzion­ali il governo e la salvaguard­ia degli interessi di un Paese. Questo prevede che vi sia condivisio­ne di una grammatica istituzion­ale, in mancanza della quale il problema non è più solo politico, ma di natura stessa del sistema politico e sociale. Un problema che si pone oggi, perché i nostri sistemi scontano la “fatica” indotta da crescenti diseguagli­anze e dalle alte aspettativ­e da essi stessi indotte, ma anche lo smarriment­o successivo al venir meno, con la fine della guerra fredda, di un nemico chiaro rispetto al quale rimarcare la propria, virtuosa differenza. Per certi aspetti, la democrazia è vittima del proprio successo: in Russia si vota, in Turchia anche, ma è quella la democrazia che vorremmo per noi? Il punto fondamenta­le non è più capire che cosa è democrazia, ma che tipo di democrazia si vuole. Ciò presuppone una maturazion­e collettiva che forse non è ancora compiuta. La risposta dipende dai valori di ciascuno, che, sommati, sono quelli di tutti.

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KEYSTONE Il Muro in testa

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