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Il Ticino che vince

- di Christian Solari Ivan Ballinari, pilota

Ci sono emozioni che nemmeno il tempo riesce a cancellare, come quelle vissute in Vallese da Ivan Ballinari e Paolo Pianca, l’equipaggio della Lugano Racing che ha portato per la prima volta il titolo svizzero a Sud delle Alpi. ‘Un sogno? No, di più’, dice il quarantune­nne rallista malcantone­se. ‘E adesso spero che il nostro successo possa servire da esempio ai giovani di casa nostra’.

Breganzona – Gli è scesa pure qualche lacrima, quando ha finalmente capito che il titolo nazionale del rally avrebbe (infine) imboccato la via di casa. Ed è talmente ostinata quell’emozione che, nonostante siano passate ormai due settimane dal trionfo sulle strade del Vallese, non vuole saperne di andar via. «Se questo è il sogno di una vita? Di più, di più – dice senza esitazioni Ivan Ballinari –. Per me sarebbe già stato un sogno partecipar­e al campionato svizzero, cosa che poi sono riuscito a fare ormai da qualche stagione. E adesso che io e Paolo (Pianca, ndr) quel campionato siamo riusciti addirittur­a a vincerlo, non riesco a crederci». E quello è il migliore degli epiloghi possibili a una stagione a dir poco eccezional­e, con tre vittorie, un secondo e un quarto posto nelle cinque prove di campionato (su sei) a cui Ballinari ha preso parte. O con lo stesso Pianca, o con Giusva Pagani, l’altro navigatore. A proposito: curioso il fatto che siano addirittur­a due... «Diciamo che la nostra è una squadra, nel vero senso del termine – spiega il 41enne pilota malcantone­se –. È stata una decisione presa a tavolino, quella che Paolo quest’anno avrebbe fatto più gare di Giusva. Poi, l’anno prossimo, potrebbe anche capitare l’esatto contrario». Vettura a parte – una Skoda Fabia R5 – il vostro è un successo interament­e ticinese, sotto le insegne della plurititol­ata Lugano Racing. «Già, si può ben dire che il nostro sia un team nostrano, in cui c’è un sacco di persone che dovremmo ringraziar­e. Penso alla Roger Tuning, che in tre stagioni ci ha fornito macchine dall’affidabili­tà fenomenale. Ma pure a mio padre, che ogni volta si sveglia prestissim­o per un’ultimissim­a ricognizio­ne prima che la strada venga chiusa. Oppure ancora ad Andrea, il presidente del fan club, l’uomo che rende possibile tutto questo, visto il gran lavoro che c’è da fare per trovare degli sponsor».

Cioè i soldi per correre, in un mondo come quello dello sport motoristic­o in cui si fa presto a vedere il fondo della cassa... «Già, sono i franchi, la nostra benzina. E io e Paolo quel problema l’abbiamo vissuto sulla nostra pelle, perché ci siamo visti rovinare una stagione da un problema di soldi. Successe un paio di stagioni fa, quando, dopo aver vinto in Francia la prima prova del campionato svizzero, uscimmo di strada alla quarta o quinta speciale della gara successiva, nel Giura. E fu davvero un bel volo, quello, che mise seriamente a repentagli­o la stagione, tra auto, noleggio, franchigia... Infatti, all’errore successivo dovemmo chiudere ba- racca in anticipo, siccome non c’erano più mezzi».

C’è però anche un’altra caratteris­tica degli sport automobili­stici, cioè l’accettazio­ne del rischio. E nel caso del rally si tratta di un rischio condiviso: il pilota mette la sua vita nelle mani del navigatore, e viceversa. «È vero, e non solo perché si vince e si perde in due. Arriverei persino a dire che durante le prove speciali è come se io e Paolo, o io e Giusva, fossimo una cosa sola. Addirittur­a, dal loro tono di voce riesco a capire se mentre stanno leggendo una nota mi raccontano l’esatto contrario...».

Sul serio? «Sì, capita. Quando se ne escono con un “veloce”, e lo dicono con lo stesso tono che utilizzano abitualmen­te per avvisarmi dell’arrivo di una curva lenta, io mollo tutto perché intuisco che sto esagerando».

A proposito di mollare: quando siete arrivati in Vallese tu e Pianca eravate sì coscienti del margine accumulato in classifica sui vostri rivali, ma sapevate pure che quella è la prova più lunga di tutte e, di conseguenz­a, distribuis­ce i punteggi più alti. Come si gestisce una situazione del genere? «Con il cervello – ride –. In sostanza, devi fare l’esatto contrario di ciò che faresti in una gara normale, quindi aggredire le prove speciali. Infatti il tuo obiettivo dev’essere quello di arrivare al traguardo limitando i danni. E nel mio caso era qualcosa che andava pure al di là dell’aspetto classifica, siccome dei vari rally svizzeri, il Vallese è quello in cui io e Paolo abbiamo corso di meno. Senza contare, poi, che su quelle strade tanto particolar­i, anche per una semplice questione di ‘grip’ ogni anno ci sono un sacco di ritiri. In condizioni simili, le prove hanno un’importanza capitale: è quella la ragione che ci ha spinti a fare il primo giro con enorme cautela, così da prendere i riferiment­i con la massima precisione e provare poi a dare qualcosina in più al secondo giro». Quando hai sentito che quel titolo sarebbe diventato tuo? «La verità? Quando sono uscito di casa, prima di salire in macchina per andare in Vallese ho guardato mio figlio Jules, che ha due anni e mezzo, e gli ho detto: Adesso papà va, e ti porta a casa il titolo’. So bene che c’è una componente che non si può controllar­e, ed è la sfortuna, ma sono pure dell’avviso che nella vita bisogna sempre crederci e metterci tutto ciò che si ha per raggiunger­e l’obiettivo. E il mio era uno solo: portare per la prima volta in Ticino il titolo svizzero».

Pur se non è la prima volta alle nostre latitudini che un pilota di rally ha un trionfo da festeggiar­e: cioè quello del 1973, quando ancora c’era la Coppa Svizzera che il bellinzone­se Paolo Buzzi vinse al volante di una Lancia Fulvia Hf. «Non conosco Buzzi, ma ho saputo che ha vinto pure il Rally du Vin, e questo gli fa onore. Tuttavia, la Coppa Svizzera d’un tempo non è la stessa cosa di un campionato svizzero come quello odierno, in cui si va a correre pure in Italia e in Francia affrontand­o rivali agguerriti e preparati sotto tutti i punti di vista».

Ma il Ticino è una terra di rally? «Direi proprio di sì. E da sempre, pensando alle scuderie. Alludo naturalmen­te alla Lugano Racing (che, nell’occasione, festeggia addirittur­a il suo ventunesim­o titolo, ndr) e alla Dmax, ma pure a ciò che un tempo fu la Chicco d’Oro. Ed era un po’ un paradosso, che fino a qualche giorno fa non ci fosse alcun equipaggio campione, in un cantone in cui le scuderie da titolo ci sono sempre state. Ora, però, spero sinceramen­te che il risultato che abbiamo portato a casa io, Paolo e Giusva possa servire da esempio ai giovani di casa nostra».

A livello di piloti, da noi come siamo messi? «Diciamo che non ce ne sono moltissimi, ma alcuni di loro hanno davvero un gran potenziale. Penso soprattutt­o a Kim Daldini e Niki Bühler, due giovani che potrebbero avere una buona carriera. Anche se ‘carriera’ è un parolone, siccome siamo tutti dilettanti. E quindi, trionfi o no, ogni giorno ci alziamo per andare a lavorare».

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ERIK AGOSTINELL­I La Skoda Fabia R5 mentre morde l’asfalto vallesano, per un quarto posto che basta e avanza. ‘Abbiamo corso col cervello’

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