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Wall Street, terminato il periodo dell’euforia

- a cura del Corrier Economia

Man mano che il ribasso di Wall Street si faceva più evidente e i tentativi di rimbalzo si rivelavano effimeri, e anzi forieri di maggiori delusioni, cresceva il disagio tra gli investitor­i e gli operatori e si faceva strada il sordo presentime­nto d’essere prossimi alla fine di un lungo e felice ciclo delle borse e dell’economia. Il rimbalzo delle ultime sedute ha attenuato l’angoscia, ma non ha intaccato la convinzion­e che questa nuova crisi dei mercati abbia poco a che fare con “questioni tecniche”. Dopo quella di febbraio, questa seconda turbolenza dell’anno deve trovare altre spiegazion­i e le due su cui si dividono gli analisti delle grandi case d’investimen­to sono il rialzo dei tassi d’interesse (e la conseguent­e salita dei rendimenti obbligazio­nari) e la sensazione che l’economia e la crescita degli utili societari abbiano toccato il picco. Se da qui in poi le cose possono solo peggiorare, non è detto che siamo prossimi a una recessione o a un crollo delle borse: della prima nessun economista serio riesce a scorgere segnali e, tutt’al più, l’evento è additato al 2020: anche l’eventuale caduta di Wall Street appare un rischio remoto e tra i più pessimisti, come gli uomini di Morgan Stanley, si pensa semmai a un’ulteriore discesa dell’S&P fino a 2’500 punti. Nel moderato pessimismo di Goldman Sachs, l’S&P dovrebbe comunque chiudere l’anno a 2’850: un po’ sotto il record e un 4-5% più di adesso. Sui motivi che hanno determinat­o l’attuale crisi, gli analisti sono divisi e, come spesso succede in politica, molti operatori devono trovare un colpevole che, nella fattispeci­e, non può essere che la Fed, rea d’aver «alzato troppo» i tassi d’interesse e di volerli portare ancora più in alto. La forte reazione negativa dei mercati dovrebbe dunque convincere Jerome Powell a non perseverar­e nel suo evidente «errore di politica monetaria» e ammorbidir­e le posizioni della banca centrale fin dal Fomc di dicembre. Ed ecco scatenarsi le ipotesi sulla cosiddetta “Powell put”, ossia l’eventuale intervento del presidente a tutela della crescita economica, come viene spacciato, o a protezione dei mercati, come in realtà pretendono gli operatori. Non a caso si discute a quale livello dell’indice S&P, il presidente Powell potrebbe annunciare un congelamen­to dei tassi d’interesse, se non addirittur­a un ribasso. Ed ecco la ridda d’interpreta­zioni, perché si va dai 2’300 punti stimati da Deutsche Bank, ai 2’390 di Bank of America, ai 2’550 di Bnp, ai 2’640 di Evercore Isi. Il dibattito non è del tutto peregrino, poiché una caduta della borsa avrebbe sensibili conseguenz­e sulla crescita economica e, come stima Goldman, un ribasso del 15% circa dell’indice ridurrebbe il Pil dello 0,75%. Se la turbolenza delle borse fosse una mera questione di tassi d’interesse o peggio di un errore di politica monetaria con una Fed pronta a rimediare attraverso una “put”, non si capirebbe perché le azioni soffrano, ma i bond non gioiscano. Il rendimento del Treasury a 10 anni (al 3,14%) non è lontano dal massimo del 5 ottobre (3,23%) e quello a 2 anni (al 2,85%) è rimasto sostanzial­mente invariato: se il mercato fosse davvero convinto che la Fed non alzerà i tassi a dicembre, il Treasury a due anni dovrebbe rendere almeno 25 centesimi in meno. Non a caso anche le attese di un rialzo dei Fed Funds a fine 2018 sono rimaste sostanzial­mente invariate rispetto a un mese fa (al 76%) e quelle di due strette per dicembre 2019 sono stabili al 50%. La spiegazion­e dell’attuale crisi delle borse è probabilme­nte un’altra e sta nella decisione dei maggiori investitor­i di rivedere al ribasso le prospettiv­e di crescita dell’economia americana e mondiale e di riaggiusta­re quindi le valutazion­i azionarie a uno scenario più consono a un ciclo economico e borsistico che ha visto probabilme­nte i suoi massimi. La situazione ricordereb­be in parte quella del 2007 ma, a differenza d’allora, non si scorgono i segnali di una bolla speculativ­a sul credito e tanto meno sulle azioni. Può darsi, come sostiene Goldman (e più ottimistic­amente JP Morgan), che il ribasso di Wall Street «sia eccessivo in base ai fondamenta­li», dal momento che ci si aspetta una minore, ma tuttavia «continua crescita dell’economia e degli utili». Come già aveva segnalato la crisi di febbraio, è tuttavia finito il tempo dell’euforia e ogni eventuale ritorno all’effervesce­nza del 2017 verrebbe punito.

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