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La nuova via della seta

Quello dei comunisti cinesi è probabilme­nte il partito marxista-leninista più di successo nella storia dell’umanità

- Di Danilo Taino

Se infatti applicare la teoria alla pratica è un dettato che ha accomunato i comunisti di tutti i tempi, il Pcc sembra averlo portato a realizzazi­one piena: l’espansione del capitalism­o di Stato di Pechino fuori dai confini della Cina ha molte delle caratteris­tiche dell’imperialis­mo teorizzato da Lenin. In particolar­e, la Belt and Road Initiative lanciata nel 2012 e oggi al centro dell’attenzione globale – la cosiddetta Nuova Via della Seta –, è nata e si è sviluppata come se fosse guidata da “L’imperialis­mo, fase suprema del capitalism­o”. La differenza è che, nel suo scritto del 1916, Lenin criticava l’espansione monopolist­ica e finanziari­a a scopo di conquista; Xi Jinping la abbraccia. Il rivoluzion­ario russo teorizzava che il capitalism­o raggiunge la sua fase di sviluppo massima e finale nella conquista di mercati e territori esteri in quanto le sue grandi imprese hanno una sovrapprod­uzione rispetto al mercato interno e, soprattutt­o, si è creato un eccesso di capitale che ha bisogno di nuovi sbocchi. Scriveva Lenin: «Ai numerosi “vecchi” motivi della politica coloniale, il capitale finanziari­o ha aggiunto la lotta per le fonti di materie prime, per l’esportazio­ne di capitale, per le sfere d’influenza, cioè per sfere di accordi redditizi, concession­i, profitti monopolist­ici e così via, territori economici in generale».

Pechino ha stanziato mille miliardi di dollari

La Belt and Road Initiative è un piano di investimen­ti, per il quale Pechino ha stanziato mille miliardi di dollari, in una serie di Paesi, soprattutt­o in Asia ma non solo, per costruire infrastrut­ture. Si tratta di strade, ferrovie, ponti, centrali elettriche, porti, centri logistici. Vie di comunicazi­one di terra e di mare sulle quali fare viaggiare le merci e grazie alle quali raggiunger­e nuovi mercati o crearli dove non ci sono. Allo stesso tempo, investimen­ti che legano il Paese ricevente alla Cina, la quale in questo modo segue la logica del ragno al centro della tela. Come diceva Lenin, esportazio­ne di capitali e sfere d’influenza. Economia e geopolitic­a.

Trasferire all’estero la sovraccapa­cità

In un articolo sul South China Morning Post di Hong Kong, il viceminist­ro per gli Affari cinesi d’oltremare nel Consiglio di Stato (il governo centrale) He Yafei scrisse nel 2014 della sovraccapa­cità industrial­e del Paese e della necessità di «trasformar­e la sfida in un’opportunit­à trasferend­o all’estero questa sovraccapa­cità». Si può naturalmen­te discutere il fatto che la Repubblica Popolare di Cina sia diventata, quarant’anni dopo l’apertura della sua economia al mondo per volontà di Deng Xiaoping, un Paese imperialis­ta nel senso inteso da Lenin. Xi e la leadership di Pechino sostengono che la Nuova Via della Seta in realtà beneficerà i Paesi che accolgono i capitali cinesi. E al World Economic Forum di Davos del 2017 lo stesso presidente si è presentato come il massimo sostenitor­e della libertà dei commerci internazio­nali, opposto al protezioni­smo di Donald Trump. Il problema è che la strategia di Xi sta sempre più suscitando opposizion­i.

C’è chi si oppone

In alcuni Paesi che hanno accettato gli investimen­ti della Belt and Road Initiative, i benefici sono risultati scarsi e i costi alti: è il caso del Pakistan. In altri l’iniziativa di Pechino ha addirittur­a costretto i governi locali a fare concession­i impreviste: è il caso dello Sri Lanka che ha dovuto dare in concession­e per 99 anni il porto di Hambanthot­a ai cinesi in quanto non riusciva a sostenere i costi del debito contratto con Pechino. La Nuova Via della Seta inizia insomma a sollevare sospetti seri un po’ ovunque. Più in generale, la Cina viene poi accusata, in particolar­e da Stati Uniti ed Europa, di praticare una politica commercial­e mercantili­sta, soprattutt­o di sovvenzion­are le sue imprese di Stato per favorirne export e acquisizio­ni internazio­nali, di tenere il mercato interno chiuso alla concorrenz­a estera, di appropriar­si di tecnologia con metodi scorretti.

La Cina viene accusata, in particolar­e da Usa e Europa, di praticare una politica commercial­e mercantili­sta, di sovvenzion­are le sue imprese di Stato per favorirne export e acquisizio­ni internazio­nali, di tenere il mercato interno chiuso alla concorrenz­a estera, di appropriar­si di tecnologia con metodi scorretti

La questione della natura della Cina moderna – imperialis­ta o meno – è tutto meno che scolastica. Le sue caratteris­tiche sono decisive nel decidere che atteggiame­nto deve tenere l’Occidente nei suoi confronti. Gli Stati Uniti di Trump sembrano non avere dubbi: si tratta di una potenza che cerca un’espansione imperiale. Lo scorso 4 ottobre, il vicepresid­ente americano Mike Pence ha tenuto un discorso che è stato interpreta­to da molti come la presa d’atto di una Guerra Fredda numero due: Washington contro Pechino. Confrontar­si con un Paese imperialis­ta richiede una strategia di contenimen­to. Confrontar­si invece con un Paese che non ha mire egemoniche significa fargli spazio nell’economia globale. È la questione del futuro.

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