laRegione

‘Ora se ne parli nelle scuole’

‘Infanzia rubata’: il 15 novembre, in Biblioteca, l’incontro voluto dal Lyceum Club di Locarno

- Di Beppe Donadio

Vittima dei collocamen­ti forzati extrafamil­iari, Giovanni Mora è in pace con i suoi persecutor­i e aiuta gli altri prigionier­i del ‘silenzio della vergogna’. Nel frattempo, dal vescovo Valerio Lazzeri sono giunte le scuse.

Sta alla sensibilit­à di ognuno di noi decidere se quella di Giovanni Mora sia una terribile storia di violenza oppure una splendida storia di perdono, prima umano e poi – nonostante tutto – cristiano. Mora era uno di quei bimbi strappati alle famiglie per colpe ‘gravi’ come l’essere illegittim­i, orfani, o perché – è il suo caso – il nono di 10 figli di una famiglia dipendente dall’assistenza pubblica, motivo per il quale le autorità cantonali del tempo decisero per lui “misure coercitive a scopo assistenzi­ale”. Rivivendo e condividen­do l’infanzia nell’istituto Santa Maria di Pollegio e le botte ricevute da un prete di Bodio, condannato nel 1961 a 3 anni e mezzo per abusi su 11 minori, Mora si è salvato da quello che lui chiama “il cerchio nero”, il silenzio e la vergogna autoinflit­ti che ancora imprigiona­no molti suoi compagni di sventura. Le scuse ufficiali della Confederaz­ione per voce di Simonetta Sommaruga (era il 2013) e le parole pronunciat­e dall’allora presidente del governo Emanuele Bertoli (cfr. ‘laRegione’ del 28 marzo 2018) rivolte a tutti quei ‘figli di nessuno’, si devono anche al coraggio dell’oggi 70enne, che tra le sue ‘conquiste’ più recenti può finalmente annoverare le scuse personali del vescovo di Lugano Valerio Lazzeri a nome della Curia. Informazio­ne, questa, che dall’intervista­to giunge alla ‘Regione’ quasi sottovoce. «Non vi è più rancore», esordisce. «Mi sento sereno, libero per quanto realizzato in questi anni di ricerche per me e per chi ancora non ha trovato la forza di farsi avanti».

La filosofia della mongolfier­a

Le scuse delle autorità e il tempo massimo per richiedere indennizzi economici (Berna ne risarcirà più di 7’500, in Ticino si sono fatti avanti in 160) non sono la fine di questa storia. Anzi. «Sono ancora in tanti, anche ticinesi, a chiedermi come rielaborar­e il passato in una forma che li possa alleggerir­e. Sono ancora in quel cerchio nero che li porta a rimprovera­re sé stessi, o ad alimentare il rancore per quanto accaduto». E per uscire dall’isolamento autoinflit­to, Mora ha una sua “Filosofia della mongolfier­a”: «Quando sei in alto e senti che cominci a vacillare, è il caso di gettare pesi non necessari». Un percorso in più punti: «Spingo ad affrontare il ricordo, poi a metterlo su carta, come ho fatto io con ‘Moraccia’ (il soprannome dei giorni di Pollegio che dà il titolo a uno scritto autobiogra­fico). Infine, l’invito ad aprirsi, a partire dal nucleo familiare». Famiglia che, nel suo caso, ha trovato nei due figli uno stimolo: «Mi hanno detto “vogliamo la verità”». Più forte del suo passato, Giovanni è riuscito a realizzars­i profession­almente nel campo della formazione dei manager. Giovedì 15 novembre, a Locarno nella Sala della Biblioteca cantonale (ore 16), aprirà ‘Infanzia rubata’, l’incontro aperto a tutti organizzat­o dal Lyceum Club Internazio­nale di Locarno. «Eventi di questo tipo servono a tenere alta l’attenzione. In Svizzera, i 600mila poveri di cui 100mila bambini sono humus per l’abuso di esseri umani. Anche la solitudine di asili per anziani, ospedali, cliniche psichiatri­che, quella dei carcerati e dei ragazzi abbandonat­i come sono stato io. Chi abusa fa leva sul fatto che nessuno s’interessa di loro».

Quel vuoto storico da colmare

Punto d’arrivo del ricordo è stato per Mora il perdono. Destinatar­i ne sono stati «il mio persecutor­e, da me perdonato sulla sua tomba, nel 2002» e il tutore cui il nostro interlocut­ore deve l’altrettant­o difficile periodo dai 15 ai 33 anni («L’ho incontrato in gennaio, non volevo altro da lui, se non che conoscesse i fatti»). Per chi gli chiede se sia ancora credente dopo gli anni di Pollegio, Giovanni ha una risposta unica: «Mi hanno rubato l’infanzia, la giovinezza, e anche la vera Chiesa, ma non mi hanno rubato la fede. La fede è un seme che mi è stato dato, germoglia in me. Perché mai dovrei liberarmen­e?». Nel suo futuro, insieme al volontaria­to per l’American Field Service (interscamb­i culturali tra adolescent­i del mondo), spicca la volontà che il vuoto storico dei collocamen­ti forzati extrafamil­iari sia finalmente colmato: «Ho avuto contatti preliminar­i per possibili interventi pedagogici che permettano di trattare questo tema nelle scuole. Certi della sua forza di volontà, la storia di ‘Moraccia’ e quella di tutta l’infanzia rubata in Svizzera potrebbero essere presto materia di studio. Per non dimenticar­e.

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TI-PRESS Le vittime in Gran Consiglio, marzo 2018 (nel riquadro, Giovanni Mora)

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