Concetti e nature
Mostra di Flavio Paolucci alla Fondazione Ghisla Art Collection di Locarno, fino al 6 gennaio 2019
La mostra di Flavio Paolucci presso la Fondazione Ghisla è utile, oltre che ben fatta. È ben fatta perché il maestro di Biasca ha intrufolato il proprio lavoro nei difficili spazi espositivi, riuscendo a sfruttare le attitudini selettive del nostro sguardo per goderne. È utile perché ci consente di mettere ordine in alcuni aspetti del suo contributo. Partiamo da una domanda che tento di formulare sia in relazione al suo specifico caso, sia in generale: possiamo comprendere la (sua) opera senza conoscer(n)e la natura, cioè senza conoscere la natura che ne è fonte, con implicazioni diverse secondo le fasi di produzione? La domanda viene suggerita quando ci confrontiamo con il nostro artista, il quale si guarda bene dall’accennare a rispondere e tutto ciò è bene espresso nel filmato dedicatogli da Claudio Tettamanti, proposto in mostra. Proprio in quel filmato tutta la sua azione è attanagliata alla fonte, al suo bosco, la sua terra, la sua lingua e il suo sorriso che ci appare metodo e sorgente. Quel sorriso, quell’incedere ironico e frammentario che ci induce a valorizzare l’influenza, nel periodo in cui egli ha vissuto a Milano, di Aldo Carpi, sono uno dei filtri che si dilungano e si dileguano nell’area che è tra il mondo reale e la realtà della rappresentazione.
L’artista mantiene una posizione ambigua tra il distacco e l’autonomia della forma, da una parte; l’adesione e il dettato della realtà, dall’altra
Si dilungano perché di decennio in decennio il lavoro di Flavio Paolucci continua a rimbalzare sul proprio nucleo tematico e procedurale; si dileguano perché gli scarti tra una fase e l’altra, le ambiguità date dalla relazione tra mimetismo e concettualizzazione ci guidano facilmente in un “terrain vague” misterioso, brillante per raggi di luce e insieme per nebbiolina solida. Ecco perché possiamo asserire che l’artista si guarda bene dall’affrontare la risposta alla domanda che ci suggerisce. Prendiamo le fusioni in bronzo o la foglia nei collage o come egli la vincola negli assemblaggi nei quali utilizza un materiale naturale, in particolare il legno. Quando nel 1978 parla del proprio senso di colpa a proposito della violenza sulla natura, egli forse sottolinea questa condizione di sospensione: «Sentivo di usare scientemente violenza sulla natura», ci riferisce Luigi Cavadini a pagina 10 del suo saggio. Abbiamo evocato l’ironia ed ecco subito zampillare il dramma: uso o abuso la natura che mi nutre? È un po’ sempre la stessa domanda che in Paolucci prende una forma specifica perché il suo lavoro artistico si sviluppa in simbiosi rispetto alla fonte e l’artista mantiene una posizione ambigua tra il distacco e l’autonomia della forma, da una parte; l’adesione e il dettato della realtà, dall’altra. Così, lo vediamo prendere un dettaglio e astrarlo oppure partire da un dettaglio e sottolinearlo o sottolinearne aspetti (per esempio la vettorialità o la volumetria o la metrica). Così, lo abbiamo visto, nel corso del tempo, pronunciare la rinuncia a nominare i suoi lavori, che sono stati a lungo intitolati: carta, quadro, oggetto e così via per poi, a un certo punto, sdilinquirsi in titoli che sono raccontini o versetti (o versacci, per riprendere il connotato ironico). Qualcuno chiede perché a un certo punto (cioè dopo il 2000) egli decida di utilizzare questi titoli così narrativi, quasi a volere deconcettualizzare il lavoro rischiando di incastrarlo in una referenzialità dalla quale invece dovrebbe tentare di fuggire, per accreditarsi nella contemporaneità. Perché la nostra concezione comune attribuisce all’artista una funzione concettualizzante e il dovere di trattare la realtà con le pinze e in provetta. L’artista, però, non necessariamente è furbo o opportunista; meglio: è così furbo e opportunista da farsi pervicacemente i fatti propri, cioè da perseguire il proprio interesse anche a scapito della relazione con il fruitore dell’opera, cioè con noi, oppure giocando su di essa e facendo cenno di andare incontro al proprio interlocutore mentre è concentrato su di sé. Era interessante, a questo riguardo, il titolo di una vecchia mostra al Museo Cantonale di Lugano: Flavio Paolucci. «Oggetto»-«soggetto». Opere 1956-1983. Il lavoro si articola nell’area che intrattiene la relazione tra oggetto (la realtà) e soggetto (l’artista). Ed ecco che, a un certo punto, l’artista si emancipa dal bisogno di ancorarsi al sistema dell’arte che gli chiede di essere concettuale e continua a fare la stessa cosa, sperimentando nuovi materiali e raccontando una storia intorno all’opera: ancorandosi, così, alla realtà referente. In questo modo, egli afferma la libertà di raccontarci che, per esempio, il sole riscalda l’albero; l’albero è stato tagliato ma le radici sono rimaste; l’uovo è stato tolto dal piedistallo. L’artista ci racconta il mondo al quale fa riferimento, come se glielo avesse indicato qualcuno; come se egli, andando per sentieri, avesse incontrata la situazione, qualcosa gliela avesse indicata e lui ne fosse tornato con la memoria per formalizzarla nel proprio lavoro. Guardando, il giorno dell’inaugurazione della mostra, i lavori negli spazi della Fondazione Ghisla, mi veniva in mente a questo proposito il famoso quadro “Bonjour Monsieur Courbet” che ho poi ritrovato nella mostra allestita al Palazzo dei Diamanti di Ferrara. In quel lavoro l’artista fa manifesto di come egli percepisca comunque se stesso al centro della realtà, essendo l’unico soggetto del quadro che proietta un’ombra nel paesaggio. Il grande Courbet non era simpatico, voleva fare e disfare la storia, l’atelier, il mercato, la nazione. Solo nei confronti della natura manteneva una relazione deferente e la ricreava secondo modalità naturalistiche mutevoli. Flavio Paolucci ci va, nella natura, si carica un grosso ramo sulla spalla, lo porta nel proprio ambiente domestico e lo rigenera in una nuova forma o in una nuova materia, con simpatia.
Flavio Paolucci “I sentieri il sentiero” mostra temporanea, a cura di Luigi Cavadini, è visitabile fino al 6 gennaio 2019, alla Fondazione Ghisla Art Collection (via Antonio Ciseri 3, Locarno), da mercoledì a domenica, dalle 13.30 alle 18.