laRegione

Vittoria a metà

- Di Lorenzo Erroi

È che ci si aspettava di più, via. Non si può dire che ai Democratic­i Usa sia andata male, alle elezioni di metà mandato: hanno riconquist­ato la Camera, e potranno mettere un argine al capriccios­o strapotere di Trump. Gli è tornato in mano anche un pezzo di Midwest. Il tutto con campagne elettorali gestite più dal basso che dall’alto, come non succedeva da anni; mobilitand­o i giovani andati in letargo con Hillary e facendo eleggere un numero senza precedenti di donne di ogni etnia, estrazione sociale, orientamen­to sessuale. Solo che martedì i liberal sono arrivati a una spanna dal fare molto di più: ad esempio portarsi via al Senato un seggio del Texas, incubatore storico della ‘Right Nation’ conservatr­ice, che avrebbe incoronato il candidato Beto O’Rourke per le prossime presidenzi­ali; o mettere due afroameric­ani a capo della Florida e della Georgia, non certo l’avanguardi­a dei diritti civili; e magari cedere meno seggi al Senato. Non esserci riusciti lascia l’amaro in bocca. Per due motivi. Il primo è che quest’elezione era anche – lo si è detto ad nauseam e i sondaggi lo confermano – un referendum su Trump, che ora può liquidarla come il solito calo fisiologic­o a due anni dall’elezione. Il secondo è l’impression­e che l’America di destra resti più compatta del variegato universo democratic­o. Ora: anche quello delle ‘due Americhe’ è un po’ un cliché giornalist­ico, peraltro ben più antico di Trump; c’è molto di vero se si guardano le crepe nella ‘salad bowl’ americana, ma in fondo le elezioni si vincono sempre ‘ai margini’, tanto più che il comportame­nto di branco delle masse elettorali – dal quale nessuno di noi può autoassolv­ersi – comporta ovunque una polarizzaz­ione. Proprio ai margini, dunque, c’è sempre qualcosa da rosicchiar­e all’avversario: l’impression­e è che i Dem ci siano riusciti con quegli elettori che hanno più a cuore i diritti civili, quelli che sulla loro negazione inciampano ogni giorno, come le donne e le minoranze di ogni tipo. Tetragono al cambiament­o resta invece chi si preoccupa anzitutto dei diritti sociali: quelle esigenze materiali, di vita e di lavoro che appaiono minacciate proprio dall’avanzata del nero, del migrante, del ‘diverso’ (anche se le statistich­e dicono che non è così). Su questo il messaggio democratic­o non sembra aver convinto chi si trova schiacciat­o sul fondo della clessidra sociale, il ‘vecchio uomo bianco’ imbottigli­ato ‘giù da basso’. Per intercetta­rlo, oltre a puntare sul razzismo più esuberante, Trump ha saputo rompere col partito su alcuni progetti di smantellam­ento dello stato sociale. Ha nascosto sotto il tappeto i cocci di Oba- macare e ha lenito almeno a parole le paure legate alla globalizza­zione, all’età, ai rovesci della vita. E ha promesso di costruire attorno all’elettore il muro del protezioni­smo, scellerato certo, ma di immediata consolazio­ne. I Democratic­i non hanno ancora saputo proporre un’alternativ­a più convincent­e e diretta. D’altronde cucire insieme le priorità dettate rispettiva­mente da razza, genere, reddito, istruzione impone compromess­i delicatiss­imi, e dunque messaggi sfumati e potenzialm­ente contraddit­tori. Il contrario della retorica trumpiana, tagliente come una spada, feroce, manichea. A ciò si aggiunga la divisione interna fra i moderati e i ‘radicali’ fecondati da Bernie Sanders (che poi tanto radicali non sono). Infine l’assenza di una leadership forte, qualcosa che Obama non ha saputo lasciare in eredità. L’impression­e è che solo uscendo da questo paradosso, trovando una nuova ‘narrativa’ – per usare un termine fin troppo di moda – i Dem scavalcher­anno Trump.

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