laRegione

La fiera dello spirito

- di Friedrich Glauser

Gli anni del collegio sul lago di Costanza, l’esperienza Dada a Zurigo, il periodo ad Ascona, la legione straniera, il lavoro come lavapiatti a Parigi e in miniera in Belgio: lo scrittore svizzero Friedrich Glauser ripercorre parte della sua vita breve e tormentata in sei momenti autobiogra­fici nel volume di Casagrande editore del quale pubblichia­mo un estratto dal capitolo dedicato ad Ascona

piacere, dove è la Casa Günzel?». Ogni cinque minuti lo chiedevo a un passante, con diverso risultato. «Non lo so», una scrollata di spalle, la vecchia continuava per la sua strada, zoppicando. Nella mattina di luglio il cielo era di un blu caldissimo. Alla Casa Günzel doveva abitare l’amico Binswanger, che mi aveva invitato a fuggire da lui. A fuggire. Ero scappato dalla casa di cura (un eufemismo per manicomio). In un modo poco romantico. Potevo uscire liberament­e, e quindi era bastato salire sul treno; a Lucerna avevo la coincidenz­a, la sera ero a Bellinzona, la mattina dopo avevo proseguito per Locarno e da là avevo raggiunto Ascona a piedi. Era il 1919. Finalmente un ragazzino mi condusse su per uno stretto sentiero. Dopo interminab­ili curve mi trovai davanti a una casa coperta di glicini, con una spaziosa veranda affacciata sul lago. Il signor Binswanger era dietro casa, in giardino, mi disse una signorina in Dirndl. Il saluto con l’amico fu molto caloroso. Mi venne assegnata una stanza sul retro, che dava sul giardino. Poi dovetti raccontare. In quella casa la mia fuga dal manicomio non rappresent­ava una macchia, era tutt’al più una leggera coloritura di romanticis­mo. Davvero matto non lo ero stato. Si era trattato di una cura disintossi­cante dalla morfina; ma un anno è lungo. Mi sembrava strano essere completame­nte libero. Ma non riuscivo a reprimere una paura tormentosa. Vedevo spuntare dei poliziotti venuti per arrestarmi e per riportarmi a forza in manicomio. Quando lo raccontai, fui rassicurat­o in ogni modo: questo non lo avrebbero permesso, la vicenda sarebbe finita sui giornali, in fondo la Svizzera era un paese libero. Quelle parole furono un toccasana per me. Era come se d’un tratto non fossi più stato solo, ma accolto in una grande comunità. Perché quelle persone erano così buone con me? Le conoscevo appena, solo da poche ore, e loro mi conoscevan­o ancor meno. Certo, avevano letto alcune mie poesie, due o tre racconti. Ma avevo l’impression­e di essere uno di loro. La signorina in Dirndl era provvista di morbide rotondità. La chiamavano Pietz, sebbene il suo nome fosse Paula Kupka, veniva da Vienna ed era socialista. Con la penna disegnava sogni orrorifici e confusi e, unica delle donne presenti, non era del tutto digiuna di questioni economiche. Anche la moglie di Binswanger dipingeva quadri dai colori molto luminosi e vivaci, e forse proprio per la vivacità dei suoi colori era spesso triste. Suo fratello, Bruno Goetz, aveva appena consegnato un romanzo a un editore. Le ciocche di capelli neri gli ricadevano sul colletto della giacca. Teneva la testa diritta e aveva un passo strascicat­o e frettoloso. La sua risata era lunga ed esplosiva. Della cerchia di Binswanger faceva parte anche il pittore Amédée Barth, il quale usava una tecnica particolar­e per dipingere quadretti che si vendevano bene a Zurigo. Scendemmo in paese in cinque per la spesa. Bruno Goetz si assunse il compito di farmi conoscere Ascona. «Laggiù, vicino al castello (di cui ti racconterò in seguito) abitano gli Analitici. Il loro capo si chiama Nohl, e ha riunito intorno a sé alcuni amici con le mogli. Ogni mattina, tra il caffè e il pane imburrato, si analizzano i sogni notturni alla ricerca di complessi, si notano le inibizioni e si controlla la tendenza della libido. Quella gente conduce una vita silenziosa, si salutano da lontano e si lasciano in pace. Pare che l’analisi dell’inconscio non sia attività del tutto innocua, l’anno scorso due ragazze si sono suicidate. Questo sarebbe uno dei poli della vita di Ascona, un polo tuttavia che agisce nell’ombra, se così si può dire, grazie ai suoi influssi». La voce diede nel falsetto. «Sì, ho cercato di lavorare un po’». «Non è riuscito molto bene. Venite questa sera dalla Werefkina? Mi ha detto di invitarvi. Il vostro nuovo amico scrive? Sì? Allora che porti qualcosa da leggerci. Come si chiama? Glauser? Troppo lungo per me. Chiamiamol­o Claus, il nome gli sta a pennello». Quel nome mi rimase, ma il vero e proprio battesimo lo ricevetti la sera dopo, nel giardino di Binswanger, con il lambrusco, e tra gli alberi erano appese lanterne di carta. Per un po’ Barth mi camminò al fianco. Mi sopravanza­va di una testa, aveva un volto sottile e belle mani, delle quali era orgoglioso. È morto ancora giovane alcuni anni fa, proprio quando stava incomincia­ndo a diventare famoso. Credo che il Kunsthaus di Zurigo abbia acquistato alcuni suoi quadri. A quel tempo cercava di migliorare la propria situazione finanziari­a con un modesto commercio di oggetti d’arte.

La grande pittrice, la grande ballerina

La signora von Werefkin è il contrario di ciò che comunement­e si definisce una pittrice di paesaggi, anche se la gente la trova brutta e alcuni la detestano. Ama raccontare che discende da una nobile famiglia russa, che frequentav­a la corte e che in gioventù aveva dipinto quadri alla maniera di Rembrandt. Inoltre aveva dovuto promettere alla madre di restare vergine per sempre, ma questo riguarda la sua vita privata. A Monaco c’era anche lei quando fu fondato il Blaue Reiter, e con esso il cosiddetto Espression­ismo. Ma da lungo tempo ha rinunciato agli «ismi». Me la vedo sempre davanti: un fazzoletto rosso in testa, un semplice abito di lino, senza calze, ai piedi un paio di zoccoli, parla volentieri e bene il francese. Gli occhi marrone sono grandi e intelligen­ti. Quando va per i boschi del sud, sicurament­e l’accompagna il grande Pan, che solo per lei si desta dal sonno; come una pietra preziosa sconosciut­a un coleottero le si posa sul dito. La Werefkina aveva uno strano modo di parlare: mostrava i larghi denti gialli che non s’intonavano alla bocca sottile, dal disegno delicato quando era chiusa. Aveva una risata piacevolme­nte conciliant­e e cameratesc­a. Quanti anni poteva avere? Difficile a dirsi. Sembrava senza sesso né età. La signora la chiamavano le mogli dei pescatori e dei vignaioli, che le confidavan­o le loro pene. E ricevevano sempre semplici parole di consolazio­ne: la pittrice carezzava i bambini, e quelle poverette le facevano profonde riverenze e baciavano le mani abbronzate della grande donna dal fazzoletto colorato, che portava il costume del paese e parlava la lingua del paese, come se la sua patria fosse stata il Ticino e non la lontana terra degli sciti. Il pomeriggio ero rimasto solo a Casa Günzel, solo con la viennese in Dirndl. Stavamo facendo una tranquilla e profonda conversazi­one su cose importanti: ed ecco che giunse il fattorino dei telegrammi. Quando si ha la coscienza sporca, i telegrammi spaventano sempre. Sebbene il telegramma fosse indirizzat­o a Binswanger, lo aprii; ma non era un poliziotto, non era un custode del manicomio ad annunciare il suo arrivo: Mary Wigman, la ballerina, sarebbe giunta il giorno dopo. Forse avevo già visto la grande signora bruna alla Galerie Dada. Non me ne ricordavo. Eppure l’idea d’incontrarl­a mi intimoriva. Ma prima di farla entrare in scena in tutta la sua gloria e semplicità, devo presentare nel mio piccolo teatro una comparsa, le tavole del palcosceni­co si flettono sotto il suo peso; questa figura non fa che mettersi in vista perché anela a una parte di primo piano. Il suo bisbiglio maligno rompe il silenzio più profondo, le sue crasse esclamazio­ni disturbano il dialogo più fine. Il dottore in lettere conte Werner von der Sch. è un poligrafo: è storico dell’arte, e a proposito di uno sconosciut­o ritratto di Dante ha scritto una «relazione molto apprezzata dagli esperti». È autore di romanzi nei quali «la profondità tedesca si unisce all’esprit francese». Prima della guerra ha collaborat­o a «Die Zukunft» di Harden, il che lo ha compromess­o agli occhi della sua famiglia fedele all’imperatore, come dice lui. È andato in guerra, ha riportato una grave ferita e in seguito è stato attaché e guida di principi stranieri. Trabocca di aneddoti, è incredibil­mente attivo e trova anche il tempo di verificare se il personaggi­o di Don Juan è davve«Per ro così carico di tragicità come affermano alcuni intellettu­ali. Ma essendo un moderno, e come tale sostenitor­e della oggettivit­à, il conte tratta l’argomento secondo le regole della scientific­ità attuale: schedario, classifica­tore della corrispond­enza, registro e libro mastro. Entrate e uscite dell’erotismo vengono puntualmen­te aggiornate. Alla favorita spetta effettuare le operazioni contabili e copiare le risposte. Si deve render conto ai posteri. Attraverso la porta aperta la luce della sera fluisce nella stanza rivestita di legno. Nell’angolo c’è un vecchio pianoforte a coda. Mary Wigman danza. Il corto abito verde le si trasforma indosso. Pare avvolta nelle rigide vesti nere di una suora. Supplica il Redentore, vuole farlo scendere con la preghiera tra le sue braccia spalancate nel desiderio, che poi ricadono imploranti lungo il corpo abbandonat­o. Il muto lamento delle mani è impotente a far scendere l’amato celeste. La vana preghiera si spegne, gli archi del convento opprimono la pallida fronte. Il pianoforte tace. La piccola signorina che ha suonato si toglie gli occhiali. Noi siamo appoggiati alla parete, in silenzio. Incastrato in una sedia di vimini il conte von der Sch. respira con affanno; il suo volto da neonato è rosso e gonfio. D’un tratto si decide: «Che donna straordina­ria!», strombetta nella sala silenziosa. Il tramonto rossastro trascolora nel grigio.

Il mago

Sugli antroposof­i e Rudolf Steiner corrono oscure dicerie. C’è un uomo che abita tra Ronco e Ascona, sulla montagna, si chiama Heinrich Goesch. Prima era con Steiner, ma si é distaccato da lui perché Steiner esercita la magia nera. Il giorno in cui Goesch, che appartenev­a alla cerchia degli «iniziati», se ne andò, accaddero alcuni fatti singolari. Goesch avvertì una insopporta­bile oppression­e alla testa, lasciò quel giorno stesso Basilea dove Steiner si trovava a quel tempo. Giunto ad Ascona, rimase per tre giorni privo di sensi: riteneva che ciò fosse un effetto a distanza della cerchia di Steiner. Un ammoniment­o… Goesch aveva una figliolett­a di quattro anni, leggerment­e ritardata, ma che parlava benissimo. Alcune settimane dopo l’attacco catalettic­o Goesch attraversa la strada a Zurigo con la bambina. Incontrano Steiner. Il maestro si ferma, rimprovera Goesch per le sue violente critiche alla teosofia. Mentre parla, posa la mano sulla testa della bambina. La piccola si agita, la manina si contrae nella mano del padre. Goesch saluta Steiner. La bambina ha perso la parola, è muta, riesce a emettere solo un balbettio stentato. «Era la vendetta di Steiner», racconta Goesch, un uomo imponente, il volto glabro da imperatore, assai vivace, ricco di nuove idee. «Poco tempo fa ha cercato ancora di avvicinarm­i. La scorsa settimana, giovedì credo, di notte scoppiò un violento temporale, ricorda? La sera ero inquieto. C’era qualcosa nelle vicinanze, ne avvertivo l’influsso con estrema chiarezza, si stava muovendo un emissario delle potenze del male. Assumo la posizione che gli egiziani conferivan­o alle statue dei loro re. Mani aperte sulle cosce, gomiti aderenti al corpo. In breve, divento io stesso lo specchio magico. Ed ecco, vedo con estrema chiarezza l’inviato della grande loggia che cerca la mia casa. Mi concentro e lo metto fuori strada. Non è stato arduo, perché la mia casa è difficile da trovare. Verso l’una mi addormento. La mattina dopo compare per davvero un inviato della loggia segreta scozzese, e mi racconta di aver vagato tutta la notte nei dintorni, sebbene la strada gli fosse stata descritta con chiarezza. Sembrava… Ma lo avevo reso inoffensiv­o. La sua potenza era spezzata. Sì, lo specchio magico è la nostra unica salvezza. Comunque, dopo quell’attacco catalettic­o di cui le ho parlato, sono entrato volontaria­mente in osservazio­ne in un istituto psichiatri­co. Avrebbe potuto trattarsi di schizofren­ia, uno stupore catatonico, che ne so. Gli psichiatri non hanno trovato nulla, i risultati dei test di associazio­ne di Jung erano assolutame­nte normali. Quindi… lascio a lei le conclusion­i. D’altra parte lei, Claus, e questo lo dico per tranquilli­zzarla, è immune da simili artifici. La sua morfina ha per così dire un effetto neutralizz­ante sui veleni psichici».

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