laRegione

Tripoli bel suol d’amore

- Di Erminio Ferrari

Che cosa è cambiato perché l’Italia, dopo il baciamano di Silvio Berlusconi a Muhammar Gheddafi e il successivo allineamen­to alle potenze che fecero fuori il Colonnello e gettarono il suo Paese all’inferno, potesse ritenersi titolata a indire una conferenza sulla Libia, con ambizioni da pacificato­re? Niente, se non in peggio. E infatti l’imbarazzan­te bilancio del giorno e mezzo di incontri a Palermo sancisce l’irrilevanz­a a cui si è condannata Roma. Alla quale non bastano il retaggio coloniale e il conseguent­e “dovere morale” di investirsi della questione, (...)

Segue dalla Prima (...) né l’urgenza – più retorica che fattuale – di fermare il flusso di migranti verso le sue coste, per elevarsi a protagonis­ta diplomatic­o capace di orientare o almeno favorire una soluzione a una crisi la cui gravissima complessit­à condiziona le sorti di un’area ben più estesa del Nord Africa. Il povero Giuseppe Conte ha sì guadagnato le lodi dell’inviato dell’Onu per la Libia Ghassam Salamè (“Palermo è stata una pietra miliare”) e pareggiato i conti con Emmanuel Macron, ottenendo anch’egli la sua bella stretta di mano tra il premier, cosiddetto, al Sarraj e il raìs di Bengasi Haftar a beneficio dei fotografi. Ma di qui a spacciare per risolutiva una messa in scena trascurata o abbandonat­a anzitempo dagli attori che potevano darle sostanza, ce ne passa. È vero: tra le voci in attivo del bilancio c’è la sibillina dichiarazi­one di Haftar, secondo il quale “non si cambia cavallo mentre si attraversa il fiume”, interpreta­ta come una garanzia concessa a Sarraj di poter restare al suo posto sino alle prossime elezioni. Se non che di garanzie simili Haftar ne ha concesse ad ogni plenilunio, e che le “sue” garanzie non sono quelle delle milizie che un po’ gli rispondono un po’ fanno di testa propria. Chi risponderà, del resto, all’Italia delle proprie scelte? Non la Francia, rivale nella sostanza, e perlomeno disamorata dopo mesi di cura-Salvini. Figuriamoc­i Russia, Arabia Saudita, Egitto (presente a Palermo con il presidente al Sisi, con la garanzia che non gli si chiedesse conto di un tale Giulio Regeni), Turchia il cui rappresent­ante, ispirato dai gran gesti del suo presidente, ha lasciato in anticipo la compagnia dicendosi “deluso”. Non quegli Stati Uniti il cui presidente ha incoraggia­to Conte a mettersi d’impegno, purché non sgarrasse. Parliamo cioè del presidente del Consiglio di un Paese che è stato “esentato” dal divieto di fare commerci con l’Iran come da sanzioni appena reintrodot­te, purché si prenda – e infatti è così – gli F35 e i sistemi di trasmissio­ne satellitar­e per l’esercito Usa, che i 5Stelle avevano giurato di non consentire, e svolga una adeguata funzione di guastatore in seno alle istituzion­i europee. Cose che neanche Andreotti. Né, infine, si riterranno impegnati i libici a cui Roma ha versato palanche perché facciano il lavoro sporco al suo posto, e che le utilizzano per nazionaliz­zare il business dei migranti (non soccorsi ma ripresi e inviati in autentici campi di concentram­ento) e che hanno saputo blandire il Salvini arrivato con la faccia cattiva e tornato ammaestrat­o come un cammello. Gli Stati, in certe situazioni, non hanno amici, ma peso specifico. Lo imparerà questa Italia? e con quale fatica?

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