laRegione

Quell’ottusità eurocratic­a

- Di Generoso Chiaradonn­a

Il redde rationem tra governo italiano e Commission­e europea alla fine è arrivato. Lo scontro di questi mesi è stato alimentato più da ragioni politiche interne, per entrambe le parti in causa, che da ragioni eminenteme­nte di politica fiscale. Roma puntava sul fatto che rimanere sotto la soglia legale del 3%, quella prevista dai Trattati di Maastricht, nell’ambito della sua legge di bilancio non avrebbe spaventato troppo i mercati e che la Commission­e Ue, ormai in scadenza, non avrebbe iniziato una procedura d’infrazione contro una delle principali economie continenta­li nonché uno dei Paesi fondatori dell’Unione europea. Insomma, da una parte c’era la malcelata voglia di dare una lezione ai sovranismi emergenti e dall’altra usare la fermezza di Bruxelles nel bocciare i conti pubblici italiani come un’ingerenza di un’istituzion­e non eletta, brutta e cattiva, nei fatti interni di un Paese sovrano. Manna per la campagna elettorale permanente in cui si trova la politica italiana da anni. Secondo i contabili di Bruxelles le previsioni di crescita dell’economia italiana sono sbagliate e aumentare la spesa pubblica – lo ripetiamo, per favorire il pensioname­nto anticipato di chi lo desidera, un fisco più leggero per la miriade di forzate partite Iva e maggiore inclusione sociale per le fasce più deboli della popolazion­e – è quanto di più deleterio possa esserci per la salute dei conti pubblici e la credibilit­à del sistema Italia sui mercati internazio­nali. Il bilancio e l’ortodossia finanziari­a, insomma, per costoro vengono prima del benessere e della richiesta di maggiore sicurezza dei cittadini. Certo, le sparate pubbliche di Matteo Salvini e Luigi Di Maio, i due leader politici che si trovano a sostenere un governo ‘bi-fronte’ sbrigativa­mente tacciato di populismo (è la nuova accusa di fascismo) non aiutano le ragioni di chi sostiene – a ragione – che le politiche europee di bilancio o cambiano in fretta oppure nel giro di pochi anni si dovrà parlare al passato di Unione monetaria e di costruzion­e del progetto europeo. È l’ottusità di chi non capisce questo, soprattutt­o a Bruxelles, che lascia basiti. La prova di forza tra Commission­e europea e governo italiano è nata ancora prima della famosa manovra finanziari­a della discordia. I soli confusi annunci di piani di spesa sono stati sufficient­i per mettere sotto pressione i rendimenti dei titoli decennali di Stato italiani e aumentare il famigerato spread con gli omologhi tedeschi senza che un euro in più fosse stato ancora speso. Eppure, come ha sottolinea­to tempo fa Giorgio La Malfa, un politico della Prima Repubblica che non può essere certamente tacciato di populismo, di ragioni da vendere in Eu- ropa l’Italia ne avrebbe in abbondanza: il fallimento sfacciato delle politiche di austerità; un pluridecen­nale rigore fiscale ineguaglia­to persino dalla Germania (saldo primario positivo ininterrot­to tra entrate e spese dal 1992, fonte Eurostat) che stoppa ogni obiezione di possibile azzardo morale; la solidità dei conti con l’estero (bilancia delle partite correnti ampiamente positiva, sempre fonte Eurostat); un’entità della manovra contenuta che non giustifica le scomposte reazioni europee. Ora arriva la procedura d’infrazione per debito eccessivo, patologia nota almeno da un trentennio. Un debito che si è aggravato soprattutt­o dal 2008 (era al 99,79% rispetto al Pil) a causa di politiche restrittiv­e attuate nel momento peggiore della crisi internazio­nale. Fino ad allora e a partire dal 1999 il peso del debito pubblico è sceso lentamente e costanteme­nte per poi salire a circa il 131% odierno. Un ritmo troppo lento per Bruxelles. Ma in macroecono­mia quello che conta non è il valore assoluto, ma la tendenza relativa.

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