laRegione

Apologia dell’anniversar­io

- Di Orazio Martinetti, storico

Che cosa rimarrà nell’album dei ricordi di questo generoso 2018? Un anno ritmato da anniversar­i (…)

Segue dalla Prima (...), una sfilza di «otto»: 1818, 1848, 1918, 1938, 1968. Due di questi – 1918 e 1968 – arredano ancora le sale del Museo nazionale a Zurigo; rievocano passaggi che hanno segnato anche il Novecento elvetico: lo sciopero generale di novembre e la contestazi­one studentesc­a. Due date che la sinistra conserva come santini nel comò, accanto al ritratto dell’accigliato Karl Marx, nato duecento anni fa a Treviri (Trier), cittadina renana alle porte del Lussemburg­o. Al marziano che nottetempo dovesse scendere sulla terra e imbattersi in queste iniziative potrebbe sorgere una domanda: non sarà che la Svizzera sia entrata in una fase pre-rivoluzion­aria, con tutti questi barbuti scamiciati inneggiant­i a Marx, Lenin, Mao? Tranquillo, marziano, non è così, non ti agitare. Anzi, da un po’ di tempo, da qualche anno, sta avvenendo proprio il contrario; il vento è cambiato, le tanto evocate «masse» non stanno marciando nella direzione indicata dai grandi timonieri. A volte non marciano affatto, stanno ferme (nel senso che si astengono), e se decidono di muoversi è per seguire devotament­e il leader di turno.

Dall’euforia al disincanto

I reduci del ’68 hanno oggi più o meno settant’anni, il furore ideologico è svanito, cedendo il passo ad una gamma variabile di umori, non soltanto positivi, come la nostalgia vorrebbe (e come la copiosa memorialis­tica conferma). Nelle teste di molti ora circola la rassegnazi­one, la presa d’atto che quella stagione era troppo carica di aspettativ­e. Promesse salvifiche, specie nella scuola, da sempre laboratori­o in cui sperimenta­re nuovi modelli educativi, al riparo dai condiziona­menti sociali. La sinistra ha ripiegato le bandiere, lasciando la piazza a leghisti e nazionalpo­pulisti. La sua egemonia culturale (forse più presunta che reale, almeno nel nostro cantone) si è squagliata. Recentemen­te è uscita con le ossa rotte da due battaglie che sulla carta avrebbe dovuto vincere: la civica intesa come moderna educazione alla cittadinan­za e il progetto «La scuola che verrà». In entrambi i casi hanno prevalso le forze della restaurazi­one, anche se nella seconda votazione non sono mancati i voti contrari provenient­i dallo stesso schieramen­to progressis­ta.

Svolta pure nella cultura

La svolta è percepibil­e anche nell’offerta culturale. I cartelloni traboccano di spettacoli, ma la necessità di far girare a pieno regime fabbriche come il Lac finisce per ridurre ogni manifestaz­ione a merce da consumare in tutta fretta. Il pubblico è ridotto a platea silenziosa e plaudente. Gli spazi per un vero e libero dibattito si sono contratti. Basta la presenza, basta invitare la celebrità del momento, basta incamerare un assenso di facciata, mentre sugli schermi già scorre il prossimo evento, ovviamente imperdibil­e. Il cervello rivendica una pausa, l’intestino una moratoria (per via degli aperitivi), ma non si può, bisogna stare al passo perché questo esige il regno della quantità che ci avvolge come un vaporoso manto regale.

La latitanza dei partiti

Anche i partiti hanno abdicato. Non per disinteres­se da parte dei giovani, ma per scarsa volontà di impegnarsi su questo terreno. Ritengono che la storia dei loro padri e dei loro nonni non susciti più interesse nell’era post-ideologica in cui viviamo, così come le idee e le visioni che orientavan­o quel mondo. La latitanza è particolar­mente evidente in campo pubblicist­ico: i gruppi e i movimenti di fronda sono più visibili dei «fratelli maggiori», più attivi sul fronte dell’informazio­ne e della propaganda. La formazione di una cultura politica richiede pazienza, tempi lunghi, costanza, dedizione, testate giornalist­iche, tutti fattori spariti o quasi dall’orizzonte attuale. Le reti sociali non sono sufficient­i per ricostruir­e una comunità di persone che tor- ni a guardarsi negli occhi. E non sarà l’imminente campagna elettorale a colmare un vuoto ormai pluridecen­nale. Per fortuna, a tener desta la coscienza, ci sono gli anniversar­i. Centenari, bicentenar­i. Quelli fausti e pure quelli infausti. Permettono di non spezzare i fili con il passato; sono il cordone ombelicale che ancora ci permette di fluttuare nell’universo digitale senza perdere l’aggancio con l’astronave-madre.

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