Separazione, con addebito a chi?
Il recente annuncio della separazione del Coro e dei Barocchisti dalla Rsi descritta come (…)
Segue dalla Prima (…) una transizione di routine, non merita di passare sotto silenzio. Presentata dal nostro ente radiotelevisivo come una soluzione mirante a garantire ai due complessi “una libertà d’azione su altri mercati che si meritano per la loro qualità, favorita anche dal fatto che noi garantiamo loro una stabilità finanziaria non irrilevante” (dichiarazione del direttore Maurizio Canetta al ‘Corriere del Ticino’ dell’8 novembre), viene da chiedersi cosa stia a monte di tale scelta. In verità siamo confrontati col fatto che il complesso corale creato 80 anni fa dalla Rsi con una storia di traguardi travalicanti la dimensione regionale – in particolare negli ultimi anni grazie alla conduzione e all’impegno di Diego Fasolis approdato a importanti festival e a registrazioni discografiche di qualità unanimemente riconosciuta – paradossalmente vede l’ente a cui appartiene rinunciare alla relativa proprietà e a esibire il possesso di un simile prodotto di eccellenza. In proposito si è invocato il modello praticato con l’orchestra, trasformata in orchestra regionale. Sennonché alla fondazione dell’Osi si è giunti dopo un iter ben meditato e concordato con il Cantone, in grado di assicurare una soluzione di stabilità e di continuità certa. In questo caso la prospettiva è piuttosto avventuristica e del tutto incerta, poiché altri sostegni istituzionali non si intravvedono, poggiando la responsabilità dei due complessi sull’individuale figura di Fasolis, personalità di molti meriti e con capacità di iniziativa notevoli, ma che si troverà a muoversi nell’azzardo. Una scommessa e un rischio quindi, a fronte dei quali c’è da chiedersi quale ne sia la giustificazione.
Logiche da ente privato
Le motivazioni addotte dalla direzione della Rsi, ormai posizionata come un compratore di servizi esterni, si pongono sulla linea di un aziendalismo nella logica propria di un ente privato più che di un ente pubblico. È quella praticata da Mediaset nel sostegno dell’Orchestra Filarmonica della Scala di cui si è accaparrata l’esclusiva, ma non quella della Rai che regge in proprio la relativa Orchestra nazionale a Torino e di tutti gli altri enti radiotelevisivi di servizio pubblico che in Europa mantengono una o più orchestre (tutti gli Stati tranne il Belgio e la Svizzera!?) e in molti casi anche i complessi corali. Orbene, paradossalmente questo avviene nell’anno dello scampato pericolo della No Billag, in cui l’ente ha affrontato il rischio di soccombere proprio vantando i meriti del servizio pubblico, la qualità e la quantità di ciò che non possono fare i privati. A distanza di pochi mesi, con la decisione riguardante il Coro e i Barocchisti, la smentita di questo ragionamento giunge dunque clamorosa. Oltre all’appiattimento sulla logica privatistica il caso in questione mostra la scarsa coscienza del valore storico del proprio patrimonio di realizzazioni che la Rsi può sfoggiare (ma il discorso vale per tutta la Ssr). La storia del coro è infatti esattamente parallela a quella dell’orchestra e per certi versi ancor più significativa. Il merito fu tutto del visionario primo direttore dell’ente, Felice Antonio Vitali, che nel 1936 indisse un concorso per l’assunzione di un maestro col compito di creare un complesso corale. La scelta cadde sul trentenne Edwin Loehrer, musicista e musicologo che inizialmente creò un quartetto vocale poi ampliato a coro vero e proprio. Sfidando le critiche dei maestri di coro della regione aspiranti a quel posto, il maestro sangallese diede al complesso l’impronta italiana finalizzandolo all’esecuzione del repertorio polifonico del Rinascimento e del Barocco, affrontando da subito Mon- teverdi, divenuto il suo cavallo di battaglia. Esibitosi nel 1939 nell’ambito dell’Esposizione nazionale a Zurigo, ospitato nel 1941 dall’Associazione di musicisti svizzeri alla loro festa tenutasi a Locarno, fu accolto come una rivelazione, tanto da essere invitato col suo complesso al Festival di Lucerna nel 1942. Il suo diuturno lavoro focalizzato sulla musica vocale italiana, scelta come marchio dal nostro ente radiofonico in ossequio alla sua identità linguistica e culturale, grazie agli spazi di trasmissione in comune con le altre reti Ssr, dapprima lo portò alla notorietà oltralpe e in seguito, grazie alla risonanza attraverso gli scambi di registrazioni tra le stazioni dell’Unione europea di radiodiffusione, all’interessamento della casa discografica parigina Cycnus che, sfornando una serie di dischi del complesso luganese, gli permise di inanellare tra il 1963 e il 1967 ben cinque Grand Prix du Disque assegnati alle sue incisioni monteverdiane (allora pionieristiche), preludio ai successivi giri di concerti in Francia, Italia, Germania, Inghilterra.
La Ssr, non più protagonista
della scena musicale
Ma il Coro della Rsi fu soprattutto uno strumento di diffusione della cultura musicale nel territorio. Oltre che palestra dell’intenso lavoro di Loehrer, fu lo strumento che permise ad altri maestri che ne assunsero la direzione di mandare messaggi importanti, a partire da Bernhard Paumgartner, il grande musicista e musicologo austriaco che tra il 1945 e il 1950 curò per la Rsi vari cicli con esecuzioni di maestri italiani di varie scuole (veneziana, bolognese ecc.) da lui riesumati: Cavalieri, Alessandro Scarlatti, Vivaldi, Albinoni, Pergolesi, Jommelli, Sarti, Galuppi eccetera. Nel 1947 Zoltan Kodaly fu invitato a dirigere in prima esecuzione svizzera la sua Missa brevis. Il 22 aprile 1949 solisti, Coro e Orchestra della Rsi diretti da Ernest Ansermet resero possibile la tappa storica della presentazione in prima svizzera alle Settimane musicali di Ascona (dopo la prima mondiale alla Scala nel 1948) della Messa di Stravinsky. Nel 1951 il compositore inglese Michael Tippett fu chiamato a dirigere il suo A Child of our Time, mentre nel 1965 Hermann Scherchen lo diresse nella Nona Sinfonia di Beethoven. Nel 1962 sotto la direzione di Loehrer il Coro garantì la prima esecuzione della Meditazione sulla maschera di Amedeo Modigliani (su testo di Felice Filippini) commissionata a Wladimir Vogel per l’inaugurazione dello studio di Besso da Stelio Molo, un altro visionario direttore dell’ente. Se a ciò aggiungiamo la più recente fioritura di iniziative concertistiche e discografiche di Fasolis, oltretutto in linea con il compito di promuovere la cultura italiana, avremmo un quadro di storia e di contemporaneità invidiabile di cui la Rsi dovrebbe andar fiera e soprattutto ostentare come espressione autentica della sua funzione programmatica e di servizio pubblico. Non trova quindi giustificazione la scelta di esternalizzare i due complessi, come se la Rsi fosse una radiotelevisione privata, commerciale, senza una storia, senza radici, senza una missione. Giustificarla chiamando in causa il modello del “Pacte de l’audiovisuel” riguardante il sostegno della Ssr al cinema svizzero è fuorviante. In ambito cinematografico la Ssr non è mai stata protagonista ma solo sussidiaria. In campo musicale la produzione della Ssr (e ancor più della Rsi) è invece stata il “core business” e soprattutto un compito istituzionale, per cui tale mutazione di ruolo avrebbe richiesto un confronto d’idee, anche a fronte della limitata incidenza finanziaria della produzione del coro (meno dell’1% dei costi annuali dell’ente). Invece hanno prevalso le ragioni burocratiche e la via amministrativa, radicate al punto che – anche lì senza preannuncio e confronto, e senza che ci fosse una reazione critica negli altri media – quest’anno è stata parallelamente esternalizzata anche la stagione dei concerti pubblici radiofonici accollata alla Fondazione dell’Osi, con la conseguenza già appurata della scomparsa del marchio Rsi negli stampati che accompagnano le manifestazioni e soprattutto del prevedibile indebolimento, per non dire dello smantellamento, delle competenze musicali professionali all’interno dell’ente. È mai possibile che un simile destino di portata strategica si prospetti nelle anticamere e nei sottintesi senza il passaggio in una pubblica discussione e in un aperto confronto con l’utenza?