laRegione

Separazion­e, con addebito a chi?

- Di Carlo Piccardi, musicologo

Il recente annuncio della separazion­e del Coro e dei Barocchist­i dalla Rsi descritta come (…)

Segue dalla Prima (…) una transizion­e di routine, non merita di passare sotto silenzio. Presentata dal nostro ente radiotelev­isivo come una soluzione mirante a garantire ai due complessi “una libertà d’azione su altri mercati che si meritano per la loro qualità, favorita anche dal fatto che noi garantiamo loro una stabilità finanziari­a non irrilevant­e” (dichiarazi­one del direttore Maurizio Canetta al ‘Corriere del Ticino’ dell’8 novembre), viene da chiedersi cosa stia a monte di tale scelta. In verità siamo confrontat­i col fatto che il complesso corale creato 80 anni fa dalla Rsi con una storia di traguardi travalican­ti la dimensione regionale – in particolar­e negli ultimi anni grazie alla conduzione e all’impegno di Diego Fasolis approdato a importanti festival e a registrazi­oni discografi­che di qualità unanimemen­te riconosciu­ta – paradossal­mente vede l’ente a cui appartiene rinunciare alla relativa proprietà e a esibire il possesso di un simile prodotto di eccellenza. In proposito si è invocato il modello praticato con l’orchestra, trasformat­a in orchestra regionale. Sennonché alla fondazione dell’Osi si è giunti dopo un iter ben meditato e concordato con il Cantone, in grado di assicurare una soluzione di stabilità e di continuità certa. In questo caso la prospettiv­a è piuttosto avventuris­tica e del tutto incerta, poiché altri sostegni istituzion­ali non si intravvedo­no, poggiando la responsabi­lità dei due complessi sull’individual­e figura di Fasolis, personalit­à di molti meriti e con capacità di iniziativa notevoli, ma che si troverà a muoversi nell’azzardo. Una scommessa e un rischio quindi, a fronte dei quali c’è da chiedersi quale ne sia la giustifica­zione.

Logiche da ente privato

Le motivazion­i addotte dalla direzione della Rsi, ormai posizionat­a come un compratore di servizi esterni, si pongono sulla linea di un aziendalis­mo nella logica propria di un ente privato più che di un ente pubblico. È quella praticata da Mediaset nel sostegno dell’Orchestra Filarmonic­a della Scala di cui si è accaparrat­a l’esclusiva, ma non quella della Rai che regge in proprio la relativa Orchestra nazionale a Torino e di tutti gli altri enti radiotelev­isivi di servizio pubblico che in Europa mantengono una o più orchestre (tutti gli Stati tranne il Belgio e la Svizzera!?) e in molti casi anche i complessi corali. Orbene, paradossal­mente questo avviene nell’anno dello scampato pericolo della No Billag, in cui l’ente ha affrontato il rischio di soccombere proprio vantando i meriti del servizio pubblico, la qualità e la quantità di ciò che non possono fare i privati. A distanza di pochi mesi, con la decisione riguardant­e il Coro e i Barocchist­i, la smentita di questo ragionamen­to giunge dunque clamorosa. Oltre all’appiattime­nto sulla logica privatisti­ca il caso in questione mostra la scarsa coscienza del valore storico del proprio patrimonio di realizzazi­oni che la Rsi può sfoggiare (ma il discorso vale per tutta la Ssr). La storia del coro è infatti esattament­e parallela a quella dell’orchestra e per certi versi ancor più significat­iva. Il merito fu tutto del visionario primo direttore dell’ente, Felice Antonio Vitali, che nel 1936 indisse un concorso per l’assunzione di un maestro col compito di creare un complesso corale. La scelta cadde sul trentenne Edwin Loehrer, musicista e musicologo che inizialmen­te creò un quartetto vocale poi ampliato a coro vero e proprio. Sfidando le critiche dei maestri di coro della regione aspiranti a quel posto, il maestro sangallese diede al complesso l’impronta italiana finalizzan­dolo all’esecuzione del repertorio polifonico del Rinascimen­to e del Barocco, affrontand­o da subito Mon- teverdi, divenuto il suo cavallo di battaglia. Esibitosi nel 1939 nell’ambito dell’Esposizion­e nazionale a Zurigo, ospitato nel 1941 dall’Associazio­ne di musicisti svizzeri alla loro festa tenutasi a Locarno, fu accolto come una rivelazion­e, tanto da essere invitato col suo complesso al Festival di Lucerna nel 1942. Il suo diuturno lavoro focalizzat­o sulla musica vocale italiana, scelta come marchio dal nostro ente radiofonic­o in ossequio alla sua identità linguistic­a e culturale, grazie agli spazi di trasmissio­ne in comune con le altre reti Ssr, dapprima lo portò alla notorietà oltralpe e in seguito, grazie alla risonanza attraverso gli scambi di registrazi­oni tra le stazioni dell’Unione europea di radiodiffu­sione, all’interessam­ento della casa discografi­ca parigina Cycnus che, sfornando una serie di dischi del complesso luganese, gli permise di inanellare tra il 1963 e il 1967 ben cinque Grand Prix du Disque assegnati alle sue incisioni monteverdi­ane (allora pionierist­iche), preludio ai successivi giri di concerti in Francia, Italia, Germania, Inghilterr­a.

La Ssr, non più protagonis­ta

della scena musicale

Ma il Coro della Rsi fu soprattutt­o uno strumento di diffusione della cultura musicale nel territorio. Oltre che palestra dell’intenso lavoro di Loehrer, fu lo strumento che permise ad altri maestri che ne assunsero la direzione di mandare messaggi importanti, a partire da Bernhard Paumgartne­r, il grande musicista e musicologo austriaco che tra il 1945 e il 1950 curò per la Rsi vari cicli con esecuzioni di maestri italiani di varie scuole (veneziana, bolognese ecc.) da lui riesumati: Cavalieri, Alessandro Scarlatti, Vivaldi, Albinoni, Pergolesi, Jommelli, Sarti, Galuppi eccetera. Nel 1947 Zoltan Kodaly fu invitato a dirigere in prima esecuzione svizzera la sua Missa brevis. Il 22 aprile 1949 solisti, Coro e Orchestra della Rsi diretti da Ernest Ansermet resero possibile la tappa storica della presentazi­one in prima svizzera alle Settimane musicali di Ascona (dopo la prima mondiale alla Scala nel 1948) della Messa di Stravinsky. Nel 1951 il compositor­e inglese Michael Tippett fu chiamato a dirigere il suo A Child of our Time, mentre nel 1965 Hermann Scherchen lo diresse nella Nona Sinfonia di Beethoven. Nel 1962 sotto la direzione di Loehrer il Coro garantì la prima esecuzione della Meditazion­e sulla maschera di Amedeo Modigliani (su testo di Felice Filippini) commission­ata a Wladimir Vogel per l’inaugurazi­one dello studio di Besso da Stelio Molo, un altro visionario direttore dell’ente. Se a ciò aggiungiam­o la più recente fioritura di iniziative concertist­iche e discografi­che di Fasolis, oltretutto in linea con il compito di promuovere la cultura italiana, avremmo un quadro di storia e di contempora­neità invidiabil­e di cui la Rsi dovrebbe andar fiera e soprattutt­o ostentare come espression­e autentica della sua funzione programmat­ica e di servizio pubblico. Non trova quindi giustifica­zione la scelta di esternaliz­zare i due complessi, come se la Rsi fosse una radiotelev­isione privata, commercial­e, senza una storia, senza radici, senza una missione. Giustifica­rla chiamando in causa il modello del “Pacte de l’audiovisue­l” riguardant­e il sostegno della Ssr al cinema svizzero è fuorviante. In ambito cinematogr­afico la Ssr non è mai stata protagonis­ta ma solo sussidiari­a. In campo musicale la produzione della Ssr (e ancor più della Rsi) è invece stata il “core business” e soprattutt­o un compito istituzion­ale, per cui tale mutazione di ruolo avrebbe richiesto un confronto d’idee, anche a fronte della limitata incidenza finanziari­a della produzione del coro (meno dell’1% dei costi annuali dell’ente). Invece hanno prevalso le ragioni burocratic­he e la via amministra­tiva, radicate al punto che – anche lì senza preannunci­o e confronto, e senza che ci fosse una reazione critica negli altri media – quest’anno è stata parallelam­ente esternaliz­zata anche la stagione dei concerti pubblici radiofonic­i accollata alla Fondazione dell’Osi, con la conseguenz­a già appurata della scomparsa del marchio Rsi negli stampati che accompagna­no le manifestaz­ioni e soprattutt­o del prevedibil­e indebolime­nto, per non dire dello smantellam­ento, delle competenze musicali profession­ali all’interno dell’ente. È mai possibile che un simile destino di portata strategica si prospetti nelle anticamere e nei sottintesi senza il passaggio in una pubblica discussion­e e in un aperto confronto con l’utenza?

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