‘La lunga inattività il momento più difficile della mia carriera’
Tra le cose che un allenatore di calcio deve mettere in conto, vi è anche l’esonero. Non sempre giustificato, forse, ma tant’è: è un’opzione aperta, a maggior ragione se il datore di lavoro è particolarmente emotivo. «Sono cose che succedono – ammette Manzo –. L’esonero l’avevo metabolizzato quasi immediatamente. È stata molto più dura, per contro, non essere sul campo per un periodo lungo, quasi un anno e mezzo. Quel distacco sì che l’ho sofferto. L’interruzione di un rapporto di lavoro nel momento in cui le cose per il club non vanno come vorrebbe che andassero, succede. La cosa dura da sopportare è stata l’inattività e l’attesa di una chiamata. È dall’età di 8 o 9 anni che sono ogni giorno sul rettangolo di gioco. Adesso che ne ho 57, è ancora così: sempre in campo. Ormai è così da 50 anni, da una vita. È la mia vita, e continua a regalarmi emozioni che sono mie ancora oggi. Il giorno in cui mi verranno a mancare, sarà perché ho perso il senno». Con lo spogliatoio del Lugano legò parecchio e le venne quasi rimproverato. «Non sono amico dei giocatori, li rispetto. Sono abituato a dire le cose chiare e dirette, ma questo mica comporta essere amici. Si chiama semmai rispetto dei ruoli. Ovunque abbia lavorato, non sono mai stato autoritario, bensì autorevole. Devo fare in modo che i giocatori capiscano il mio punto di vista. Condivisibile o meno che sia, è finalizzato a un determinato tipo di calcio. Fortunatamente conosco la materia abbastanza bene. Mi tengo aggiornato, mi metto in discussione. Ciò che dico a un calciatore è il frutto di una riflessione dettata da quello che ritengo sia utile a un organico di 23 o 24 elementi. Se all’interno di un gruppo così eterogeneo riesco ad averne solo due o tre ai quali non sto troppo simpatico, significa che ho fatto un buon lavoro».