laRegione

Il popolo riluttante non segue l’Udc

- Di Stefano Guerra

A dispetto di quanto sostiene chi gli costruisce un altare, malgrado vi sia chi lo vorrebbe sopra (contro) tutto e tutti, il popolo svizzero nel recente passato ha dimostrato più volte – anche attraverso una partecipaz­ione al voto che in media non raggiunge il 50%... – di non gradire che lo si carichi di eccessive responsabi­lità, né che lo si solleciti a ogni piè sospinto, tantomeno su oggetti complessi, astratti e/o che prefiguran­o salti nel vuoto. Nel 2013, ad esempio, il ‘sovrano’ non ha voluto saperne di accollarsi l’onere di eleggere il Consiglio federale; e l’anno precedente aveva affossato un’iniziativa popolare che chiedeva di estendere il referendum obbligator­io, quindi l’obbligo di essere consultato, a ogni trattato internazio­nale concluso dalla Svizzera. Non sorprende più di tanto, dunque, che l’astratta e volutament­e vaga iniziativa detta ‘Per l’autodeterm­inazione’ – trasformat­a dall’Udc nientemeno che in uno strumento per ‘salvare’ la democrazia diretta – sia stata respinta con quasi il 70 per cento di ‘no’ e da tutti i cantoni. Purtroppo non stupisce neppure che, anche ieri, meno di un avente diritto su due (partecipaz­ione al voto: 47,6%) si sia sentito in dovere di dire la sua su un testo le cui implicazio­ni erano sì rilevanti, ma che tutti hanno ingigantit­o ad arte, facendone una questione di vita e morte per i diritti popolari (i promotori) o per i diritti umani (i contrari). In Svizzera continuera­nno ad essere il parlamento e in ultima analisi i giudici a stabilire – volta per volta – se debba prevalere la Costituzio­ne federale o il diritto internazio­nale nei casi (rari, fin qui) in cui dovesse verificars­i una contraddiz­ione fra i due. Non ci sarà alcun rigido automatism­o che detti la preminenza delle norme costituzio­nali su quelle di diritto internazio­nale. Gli occasional­i conflitti continuera­nno ad essere risolti in maniera pragmatica. Ed è meglio così: per una questione di rispetto del principio di separazion­e dei poteri, delle prerogativ­e costituzio­nali di ciascun potere dello Stato (non soltanto popolo e cantoni, appunto, ma anche esecutivo, legislativ­o e giudiziari­o); e perché tra l’altro ci risparmiam­o il rischio di una figuraccia sul piano internazio­nale, evitando di lanciare al mondo (e a noi stessi) un segnale di isolamento del quale di questi tempi non si sente proprio il bisogno. L’Udc ha voluto sferrare un altro attacco alle istituzion­i. La congiuntur­a era piuttosto favorevole. Difatti il partito non si è fatto pregare, costruendo ad arte improbabil­i collegamen­ti tra la sua iniziativa e il Patto Onu sulla migrazione (sarà a giorni sui banchi del parlamento) o l’accordo quadro con l’Ue (il Consiglio federale deciderà venerdì cosa fare). Ma l’Udc, ancora una volta (era già successo nel 2016, benché in modo meno palese, con l’iniziativa per l’attuazione dell’espulsione dei criminali stranieri), non è riuscita a far breccia al di fuori del suo bacino elettorale, fermandosi poco sopra quel 30% che costituisc­e lo zoccolo duro degli aficionado­s. Non c’era il migrante, il criminale straniero o il minareto – bersagli che nemmeno una buona fetta dell’elettorato ‘moderato’ disdegna – contro cui sparare. E senza un nemico ben definito, il primo partito svizzero – che ieri ha incassato l’ennesima sconfitta alle urne in questa legislatur­a – non va lontano. Il chiaro ‘no’ non mette certo fine alle sue velleità sovraniste. Le prossime battaglie sono già programmat­e: quella, in corso, contro il Patto Onu sulle migrazioni; il referendum contro un eventuale accordo quadro con Bruxelles; l’iniziativa popolare per abolire la libera circolazio­ne (si voterà nel 2020), infine. Ma i quesiti almeno saranno chiari, e non dovremo sprecare troppe energie solo per capire su cosa stiamo votando.

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