Tragica grandezza
Le opere dell’espressionista tedesco Max Beckmann in mostra al Museo di Mendrisio fino al 27 gennaio
La pittura di Max Beckmann si staglia dentro il panorama dell’espressionismo tedesco con la gravità di un orizzonte plumbeo e minaccioso che non ti scrolli di dosso. Impossibile dimenticarlo quando lo si è visto e sentito. Non dico i singoli quadri, ma il tono, quel tono che lo segue (e ti segue) ovunque, che marchia la sua arte anche al di là delle variazioni che pure si colgono. È come un basso continuo che risuona sempre al fondo della sua pittura, anche quando – verso i suoi ultimi anni – si farà più chiara e luminosa. Nato a Lipsia nel 1884, entra presto in contatto con la Secessione artistica di Berlino, città in cui vive fino al 1915; qui raggiunge precocemente la celebrità con una “bella” pittura tardo-impressionista. Basti osservare il ‘Vecchio orto botanico’ con cui apre la mostra, da considerarsi tra i primi suoi dipinti perché fatto a Parigi nel 1905, quand’era poco più che ventenne: raffinatezza di tocco e sicurezza di impaginazione, padronanza di un mestiere aggiornato sulla lezione di Cézanne e Van Gogh. Quando però nel 1915 si trasferirà a Francoforte, il suo stile subirà un radicale cambiamento rispetto al periodo prebellico. Motivo? L’incontro faccia a faccia con le tragiche conseguenze della guerra, quella reale non quella invocata ed esaltata dagli interventisti (e da non pochi artisti, di qua e di là dei confini, prima, e delle trincee, poi). Anche lui era partito come infermiere volontario per dare un aiuto concreto alla sua patria, ma lo scempio terribile dei corpi martoriati, la tragica realtà del dolore e della morte causarono in lui un profondo shock fisico e psichico, tanto da buttarlo in una cupa depressione. Non era che l’inizio di una lunga tragica catena perché presto sarebbero seguite la grande depressione degli anni Venti, l’affermarsi delle dittature e del nazismo, l’arte degenerata, l’esilio volontario in Olanda, ed infine la Seconda guerra mondiale con i lager e l’olocausto. Con la sua potente pittura, rudemente sbozzata ma solida come un diaspro, Max Beckmann nel corso dei decenni ha vissuto sulla sua pelle il costo della coerenza a un’idea di pittura di certo non compiacente ma consonante al suo sentire, per la quale ha investito tutto se stesso alternando momenti di intensa produzione ad altri di grandi silenzi e solitudine: fino alla condanna dell’arte degenerata e dell’esilio. Ma se questo era il prezzo da pagare, noi oggi vediamo in lui, nei suoi dipinti come nella sua grafica, colui che al pari di pochi altri (Otto Dix e George Grosz), e forse ancor più di altri, ha saputo dare forma e corpo alla tragedia di un continente intero che sembrava aver perso ogni lume e che lasciava poco spazio alla speranza. In effetti, rispetto al gusto caricaturale e grottesco di Grosz o all’accentuazione macabra di Dix, Beckmann pare sempre confrontarsi con quanto gli sta di fronte: che sia una natura morta o un ritratto, un autoritratto, un parco notturno (Baden-Baden) o una marina. Beckmann amava il mare e il paesaggio sia del Nord che del Sud, se non che poi, quando si mette al lavoro, quel che ne esce è un’immagine martoriata, la cui unità è frammentata, disarticolata, talvolta fino ai limiti della leggibilità e della dissolvenza, come si trattasse di un mondo dato per frammenti difficilmente armonizzabili e componibili. Egli lavora con il nero e a partire dal nero: perché il nero non è solo il tono che meglio rispecchia la realtà del suo mondo e del suo tempo, ma anche quello con cui struttura il traliccio dell’immagine, imbrigliandola in spicchi come fossero impalcature metalliche, dentro cui sparge poi mani di colori non tonalmente accordati, ma a contrasto secco. Basterebbe, per rendersene conto, osservare la fotografia della sinagoga di Francoforte, tra le molte esposte nella bacheca della prima sala, per vedere il confronto tra la realtà fotografica e il modo in cui l’artista risolve l’immagine alla fine del suo percorso. Lo “spazio” della sua pittura muove insomma da quello naturalistico ma non si arresta lì: va oltre, diventa psichico, esistenziale e storico ad un tempo. Lavorati sulla forgia a fuoco e a colpi di martello, anche gli oggetti più consueti e usuali, perfino i fiori, si fanno rivelazione non di uno stato delle cose, ma di una percezione dell’esistere e di una verità interiore connotata dal sentimento di una tragica grandezza su cui incombe sempre l’ombra della sconfitta.