Quell’incognita sull’Eurozona chiamata ‘rischio Italia’
Il livello d’indebitamento globale (pubblico e privato) è in continua crescita dallo scoppio della crisi finanziaria del 2008. Ormai è pari al 240% del Pil mondiale (fonte Banca dei regolamenti internazionali). In un momento in cui la politica monetaria comincia a orientarsi verso un regime meno accomodante, il continuo aumento del debito globale spaventa gli investitori. Negli ultimi dieci anni, bassi tassi d’interesse e abbondante liquidità hanno incoraggiato l’indebitamento delle famiglie e il ricorso alla leva finanziaria per le società. Il Fondo monetario internazionale è, come al solito, preoccupato più per il livello del debito pubblico che per quello privato. Quest’ultimo, almeno negli Stati Uniti, è garantito da salari in aumento e redditività ancora elevata delle imprese. Il debito pubblico è definito però ‘tallone di Achille’ della zona euro visto che è a livelli elevati rispetto al Pil dalla crisi del 2008. Solo nel 2016 ha incominciato a regredire leggermente. Ora però c’è la vertenza italiana a mettere di nuovo alla prova le politiche economiche degli ultimi dieci anni dell’Eurozona. Stefano Cividini, responsabile della divisione Investment services di Ubp Lugano, nel suo intervento ha parlato di scommessa italiana. Il rischio di default e di ridenominazione per Roma sono in aumento, ma il contagio della febbre da spread italiano non c’è ancora stato. Per ora l’epicentro della crisi è limitato ai soli titoli di Stato italiani decennali. Appare però irrealistico che una delle principali economie dell’Unione europea possa uscire dall’euro senza conseguenze per gli altri. Stefano Cividini identifica le tre variabili che determinano la dinamica del rapporto debito/Pil (attualmente al 132%): avanzo primario, la spesa per interessi e la crescita dell’economia. Le prime due sono sotto controllo da tempo, nonostante lo spread tra Btp e Bund, mentre la terza è asfittica dal 2009 (con una seconda recessione nel 2011). La ricetta proposta è quella di aumentare il Pil attraverso riforme strutturali (sistema previdenziale e regole del mercato del lavoro). Una strada, quest’ultima, abbandonata dall’attuale compagine governativa ‘sovranista’ che propone maggiore spesa sociale. GENE