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Arno, la fine dell’uomo eterno

Ventidue anni dopo, il guru di San Moritz decide di lasciare il Davos. E alla Vaillant Arena è l’alba di un nuovo inizio.

- Di Christian Solari

Non c’è soltanto il tempo che passa, e che a poco a poco finisce col logorare i rapporti. In ventidue anni, infatti, ne capitano di cose. E se il mondo evolve (ma per non essere eccessivam­ente ottimisti, diremo sempliceme­nte che cambia), l’hockey evidenteme­nte non può stare a guardare. Così non è una sorpresa, che alla fine anche Arno Del Curto si debba arrendere. A dimostrazi­one, semmai ce ne fosse bisogno, che di eterno non c’è nulla. Nemmeno lui.

Dai primi segnali all’inevitabil­e tracollo. Adesso, però, il rischio è il vuoto di potere.

Osannato dalle piazze e invidiato dagli avversari, dopo ventidue anni di onorato servizio – anzi, diciamolo pure: onoratissi­mo –, nonostante tutto ciò che ha fatto per il suo Davos, a 62 anni il guru di San Moritz scende dal carro. È l’epilogo di una telenovela anche piuttosto stucchevol­e, come ogni telenovela che si rispetti, iniziata ancor prima che il campionato cominciass­e. Quando, a una settimana esatta dal via, il buon Arno decise di arruolare in extremis tale Anders Lindbäck, trentenne portiere svedese catapultat­o improvvisa­mente dagli States, il cui arrivo nei Grigioni tolse sempliceme­nte di mezzo sia Gilles Senn, sia Joren Van Pottelberg­he (con quest’ultimo che dovette addirittur­a emigrare in Danimarca), ovvero i due giovani di talento – almeno sulla carta – su cui Del Curto a suo tempo decise di scommetter­e tutto. Oltre ad essere un’ammissione di colpa, quel dietrofron­t fu pure il primissimo segnale che qualcosa non andava. E per averne la prova provata è bastato pazientare soltanto un mesetto. Quando, del tutto inspiegabi­lmente, sulle colonne del ‘Blick’, esprimendo­si sull’allargamen­to a sei stranieri – misura di cui, tra l’altro, fu lo stesso club gialloblù tra i promotori – il presidente Gaudenz Domenig se ne uscì nientemeno che con questa frase: «La scelta di portare Gilles Senn al Mondiale a fare il terzo portiere dimostra quanto si è disperati».

Serve un nuovo progetto

Dev’essere, però, che la disperazio­ne è più contagiosa dell’influenza, a giudicare da come sono poi andate a finire le cose a Davos. Anche se, e questo è innegabile, le dimissioni di Del Curto hanno tolto il club dagli impicci. Perché non dev’essere facile imitare i Trump e i Briatore di The Apprentice, e il loro ‘sei fuori!’, quando di fronte ti ritrovi il dipendente che con intuito e carisma ti ha permesso di vincere ben sei titoli, di cui addirittur­a quattro a scadenze biennali tra il 2005 e il 2011. Tolto il dente, tolto il dolore. Il buco, però, quello rimane. Infatti, ventidue anni di autorità, prestigio e chi più ne ha più ne metta, si traducono in ventidue stagioni di potere concentrat­o nelle mani di un’unica persona. E il Davos, naturalmen­te, si sarà sì subito messo alla ricerca di un sostituto, ma l’impresa si preannunci­a ardua davvero. Non solo perché intanto il campionato mica si ferma, e fra un mese c’è già la Spengler, ma soprattutt­o perché tutto quel potere adesso andrà suddiviso tra più persone, come ci si è abituati a fare un po’ dappertutt­o nell’era dello sport moderno. Prima degli uomini, però, serve il progetto. Poi la strategia per applicarlo. C’è tanto lavoro, insomma. E prenderà del tempo, perché quando si decide di buttare tutto all’aria, poi ci vuole pazienza per ricostruir­e. Ma si può fare. E lo si può fare bene. L’Ambrì insegna.

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