laRegione

Risvoltini e paltò

- Di Lorenzo Erroi

Coco Chanel diceva che “la moda passa, lo stile resta”. Philipp Plein ha imparato la lezione: (…)

Segue dalla Prima (...) dalle polemiche sul trattament­o dei suoi impiegati (collezione primavera/estate) alla truce campagna del Black Friday (autunno/inverno), il suo stile è rimasto esattament­e lo stesso. Il taglio è quello del parvenu da cinepanett­one, “da casello a casello in un giro di Rolex”: pago, pretendo. Che gli si contestino orari impossibil­i o immagini di donne prese a colpi di mannaia, Plein risponde sempre con la scusa del buon contribuen­te. Se il femminicid­io vende, “significa più tasse pagate al Cantone a fine anno. Il Cantone che tu rappresent­i e che ti paga le bollette!”, rimprovera con baritono padronale a Fiorenzo “Dadu” (sic), reo di averlo criticato. Stropiccia­tura sessista a parte – ma che tristezza – il ricatto è chiaro: se ti pago la cravatta, posso farne guinzaglio. Ma perché Plein si prende queste libertà? È solo caratterac­cio, o è il risultato di un atteggiame­nto troppo remissivo nei confronti dei ‘megacontri­buenti’? Dopotutto a marzo, quando emerse la questione degli orari di lavoro, sindaco e cantone corsero ancora in pigiama a minimizzar­e, ricevendon­e in cambio duecento rose bianche. (Vengono in mente le parole di ‘Love Story’: “Amare significa non dover mai dire mi dispiace”). A questo giro il sindaco ha mandato un messaggio più secco. Attorno a lui però, fra le istituzion­i, non si contavano molte schiene inamidate: Ps e Mps, una quindicina di parlamenta­ri assortiti e poco altro. Certo, pochi per fortuna sottoscriv­ono le stupidaggi­ni del segretario leghista: “Se al posto di una donna ci fosse stato un uomo avrebbero montato la panna allo stesso modo?”; o l’invito, da parte dei suoi sodali in parlamento, a preoccupar­si piuttosto degli “abusi carnali nei nostri centri d’asilo” (lo stile, qui, è da canottiera macchiata di sugo e ascella fumante; tutt’altro che fuorimoda, purtroppo). Ma in generale si nota una certa distrazion­e. Oltre all’enorme questione del rispetto della donna, si perde un’occasione per ridiscuter­e le relazioni fra la moda e il Ticino. Per fare un bel respiro e chiedersi cos’ha portato davvero questo mondo, inseguito per anni con una fiscalità sartoriale e assai larga di manica. Cultura sociale, lavoro, esternalit­à positive sul territorio: tutti stracci passati nell’armadio dei fuoristagi­one, di fronte alla promessa del gettito facile. Leggi: parassitis­mo fiscale, ancheggian­te variazione del parassitis­mo finanziari­o che accompagna­va il segreto bancario. La mia critica non nasce da velleità anticapita­listiche: l’“eskimo innocente” di gucciniana memoria è in naftalina da un pezzo. So pure benissimo che contribuen­ti come Plein ci donano più delle proverbial­i braghe di tela. Ma la moda in Ticino – sul Cassarate e altrove – è ben lontana dal costituire un comparto solido e duraturo. Capricci e ricatti a parte, è dell’altro giorno la delocalizz­azione di Luxury Goods, mentre due anni fa se ne andò Armani. A suo tempo si erano decantati certi investimen­ti come un taumaturgi­co vello d’oro: ora si rivelano un cappottino che non dura un inverno. Nel frattempo, fra modaioli e altri avventurie­ri, si assiste alla desertific­azione di città come Lugano. Anche se ‘città’ ormai è una parola grossa: mentre i giovani ricomincia­no a emigrare, sull’uomo in frac “si spegne anche l’insegna di quell’ultimo caffè”. Poi forse ho io un’immagine idealizzat­a del buon capitalist­a: gente in paltò e borsalino, senza risvoltini e scarpe borchiate. Sia come sia, “il lusso se ne va, ma i cittadini restano”, come si è notato recentemen­te su queste pagine. I soldi della moda possono pure rimpinguar­e le casse pubbliche, finché ce n’è: ma non devono distrarre i loro cassieri dalla ricerca di sviluppi alternativ­i. Perché un conto è paracaduta­re qui imprese che generano solo fatture, un altro attrarre investimen­ti che creino lavoro (magari anche pagato seriamente, se non è chiedere troppo) e vero indotto. Più facile a dirsi che a farsi, per carità. Reagire con un “fuori tutti” sarebbe puro autolesion­ismo, e la politica locale non può trovare da sola una soluzione. Deve però riconoscer­e le sue responsabi­lità, per non ripetere gli stessi errori nei settori più promettent­i per il futuro, dalle biotecnolo­gie alla meccatroni­ca. Chissà, magari si possono reinvestir­e certi incassi su chi rispetta criteri più rigorosi di radicament­o e sostenibil­ità, anche se ci sarà sempre qualcuno che liquida queste intenzioni come troppo dirigiste (ma il laissez faire non è il solo modo per essere liberali). L’alternativ­a è un guardaroba di imprese aliene e alienanti, coi loro prevedibil­i accessori: sfiducia civica e perdita del senso di comunità. Dai diamanti non nasce niente, dalle giacchette dozzinali molto poco.

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